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“Bisogna farlo sapere!”
Un’esperienza nella prima Pune (anni '70) che svela tutta l’importanza del “lavoro” di Osho...
Il racconto tratto dal libro di Swami Krishna Prem
Preziosi testi apparsi su Osho Times n. 216

Una mattina durante la solita riunione di staff, subito dopo il discorso di Osho, udii Laxmi, la segretaria di Osho, dire a Garimo, la sua assistente: “Fai in modo che all’ora di pranzo, tutti i lavoratori della Comune possano ascoltare la registrazione di ciò che Osho ha detto a Meeta ieri sera in darshan”. A mezzogiorno, circa cinquecento persone, curiose e un po’ preoccupate, si riunirono in Buddha Hall per ascoltare ciò che Osho aveva detto a Meeta, una delle dattilografe.
Garimo, con la sua solita precisione olandese, spiegò brevemente che Osho voleva che tutti noi ascoltassimo la registrazione. Dagli altoparlanti iniziò a sentirsi la voce sottile e infantile di Meeta: “Batto a macchina da un anno e mezzo, ma proprio non mi piace, non mi è mai piaciuto. L’ho fatto solo perché ce n’era bisogno, ma sento che preferirei fare qualche altro tipo di lavoro che mi piace di più”.
Una pausa e poi arrivò severa la voce di Osho: “Se tutti sono qui per divertirsi, chi farà tutto il lavoro? Solo io? Va benissimo divertirsi, ma così non condividete il lavoro con me. Tutti vogliono solo passare il tempo in giardino, nessuno vuole lavorare da qualche parte. Dunque perché dovrei lavorare io? Posso andarmene anch’io in giardino! Questa idea nasce dal fatto che manca l’impegno, il coinvolgimento. Lavori solo per te, non per me, altrimenti non ci sarebbe alcun problema, alcuna difficoltà. Quando inizi a comprendere che stai lavorando per me, che non è un lavoro, che questo è il tuo modo di sostenere il mio lavoro, che questo è il tuo amore per me, non c’è problema. O pensi che Laxmi abbia voglia di stare in ufficio, o che Maneesha abbia voglia di fare il suo lavoro? Sarebbero tutti in giardino, tranne me!”.
Ci fu un ridacchiare nervoso qua e là, mentre si sentiva che Osho rideva sotto i baffi.
“Ma come potrei fare tutto io? Continuo a invitare qui migliaia di persone, il lavoro aumenta sempre di più e nessuno vuol fare più nulla.
Cambia il tuo atteggiamento e osserva cosa succede: per due mesi lavora per me, dimentica te stessa. Se non funziona, ti cambierò lavoro e potrai fare qualsiasi cosa vorrai”.1
Lasciando la Buddha Hall, tutti tacevano, pensierosi.
“Siamo tutti addormentati” diceva spesso Laxmi e io stesso mi ero accorto di come facilmente si perdesse di vista ciò che Osho stava cercando di fare, come ci dimenticavamo, immersi nei nostri piccoli mondi, il ruolo che ognuno di noi era chiamato a svolgere nel “gioco” del nostro maestro. E mentre tornavo al lavoro, all’ufficio stampa, mi ricordai di un brano da una traduzione dall’hindi che avevo editato da poco. Parlando di Swami Vivekananda, l’apostolo di Ramakrishna in America, Osho diceva che era morto molto deluso, perché era stato incapace di trovare un centinaio di uomini con il coraggio di farsi avanti e di essere trasformati.
“Non ho alcuna intenzione di morire in quel modo” aveva detto Osho.
“Quando morirò” aveva aggiunto “non voglio che ci sia qualcuno al mondo che possa dire: ‘Come mai me lo sono lasciato sfuggire? Perché non ho mai sentito parlare di lui?’”.
Era molto chiaro cosa dovessi fare. Attraverso i libri, le registrazioni dei suoi discorsi, una rivista mensile, una newsletter quindicinale e una crescente rete di centri di meditazione in tutto il mondo, si stava già diffondendo la sua fama, la notizia che fosse disponibile come maestro illuminato... e ora voleva usare i media. Toccava a me! Come diceva Laxmi: “Bisogna farlo sapere!”.
Qualche mattina dopo, durante il discorso, l’essenza del suo lavoro, esattamente quello in cui eravamo coinvolti, ci fu spiegata con chiarezza cristallina. Io avevo interpretato “il lavoro”, come “dire a tutto il mondo dell’esistenza di Osho”, nulla di più. Ma lui aveva in serbo qualcos’altro ed era di una grandezza tale che la mia piccola mente rimase allibita.
Negli ultimi mesi aveva parlato molto sul Buddha, in quel momento commentava il Sutra del Diamante. “Venticinque secoli or sono, un giorno, al mattino presto – proprio come oggi – nacque questo Sutra”, ci aveva detto nel discorso di apertura della serie. “Milleduecentocinquanta monaci erano presenti. Accadde nella città di Sravasti. A quel tempo, era una grande città. La parola Sravasti significa ‘la città della gloria’: era una delle gloriose città dell’India antica; in essa abitavano novecentomila famiglie. Ora quella città è completamente scomparsa. Esiste un piccolissimo villaggio e non troverete il suo nome su alcuna carta geografica, anche il nome è scomparso. Ora si chiama Sahet-Mahet: non si può credere che in quel luogo sia esistita una città tanto grande. Queste sono le vie della vita: le cose continuano a cambiare. Le città si trasformano in cimiteri, i cimiteri si trasformano in città... la vita è un flusso. Il Buddha deve aver amato quella città, Sravasti, perché dei quarantacinque anni del suo ministero, venticinque li trascorse a Sravasti. Deve aver amato i suoi abitanti. Dovevano aver raggiunto una consapevolezza molto elevata. Tutti i grandi Sutra del Buddha, quasi tutti, vennero alla luce a Sravasti. Anche questo Sutra, ‘Il Sutra del Diamante’, nacque a Sravasti. Il nome sanscrito di questo Sutra è: Vajrachchedika Prajnaparamita Sutra. Significa: ‘Perfezione della saggezza che può tagliare come un fulmine’. Se glielo permetti, il Buddha può tagliarti come un fulmine. Può decapitarti. Può ucciderti e aiutarti a rinascere.
Un Buddha deve essere entrambi: un assassino e una madre. Da un lato deve uccidere, dall’altro deve darti un nuovo essere. Il nuovo essere è possibile solo quando il vecchio è stato distrutto. Solamente dalle ceneri del vecchio nasce il nuovo. L’uomo è un’araba fenice. L’araba fenice non è solo un uccello mitologico: è una metafora che rappresenta l’uomo. Quest’araba fenice non esiste in alcun luogo, se non nell’uomo. L’uomo è l’essere che deve morire per rinascere”.
Quella era stata la sua introduzione. Il fulmine colpì un paio di giorni più tardi.
Il Sutra di quella particolare mattina riportava un dialogo tra Buddha e Subhuti, un discepolo che era diventato un bodhisattva, l’ultima tappa prima di essere un buddha. Verso la fine del discorso, Osho ripetè il Sutra: “Subhuti chiese: ‘Ci saranno degli esseri – in un tempo futuro, negli ultimi momenti, nell’ultima epoca, negli ultimi cinquecento anni, nel momento del collasso della buona dottrina – che, quando queste parole del Sutra saranno insegnate, comprenderanno la loro verità?’”. “Vi stupirà,” disse Osho “questo è il momento del quale parlava Subhuti e voi siete quelle persone. Sono trascorsi venticinque secoli. Subhuti chiedeva notizie di voi”.
Fu come se un terremoto avesse colpito la Buddha Hall. Aprii gli occhi, tutto intorno a me, tutti si erano totalmente immobilizzati, con l’attenzione focalizzata su Osho, sull’incredibile, meravigliosa cosa che stava dicendo.
“Buddha ha detto che” continuò Osho “quando nasce una religione, quando un Buddha gira la ruota del Dhamma, naturalmente, piano piano, poi la ruota comincia a fermarsi. Perde spinta. Capite? Se giri una ruota, comincia a muoversi, poi, a poco, a poco, arriverà l’istante in cui si ferma. Quando un Buddha gira la ruota del Dhamma, occorrono duemilacinquecento anni perché si fermi completamente. Ogni cinquecento anni perderà spinta: queste sono le cinque ere del Dhamma. Ogni cinquecento anni, il Dhamma perderà in velocità, diminuirà progressivamente e dopo venticinque secoli la ruota si fermerà di nuovo. Sarà necessario un altro Buddha per girarla per i venticinque secoli successivi. Buddha stava parlando di voi. Il Sutra è letto per voi. Venticinque secoli sono trascorsi. Subhuti chiedeva notizie di voi”.
Il mio corpo rabbrividiva e al contempo lo sentivo caldissimo, infuocato. Non c’era nulla che si frapponesse fra Osho e me: ero aperto, attento, espanso e lasciavo che mi pervadesse.
“L’altro ieri” continuò Osho “vi ho detto che molti, molti di voi diventeranno Bodhisattva, molti di voi sono sulla strada. È strano che Subhuti abbia fatto una domanda simile. Ancora più strano è che Buddha abbia risposto: ‘Fra venticinque secoli, quelle persone non saranno meno fortunate di te, ma saranno più fortunate’. Perché? Vi ho detto molte volte che voi siete antichi, che avete camminato su questa Terra molte, molte volte; che non state ascoltando il Dhamma per la prima volta, che avete incontrato molti Buddha nelle vostre vite passate – a volte un Krishna, a volte un Cristo, a volte un Mahavira, a volte un Maometto –
ma avete incontrato molti, molti Buddha, molte persone illuminate.
E siete molto fortunati ad aver conosciuto tanti Buddha. Se sarete un po’ attenti, tutti i semi che sono stati seminati in voi dai Buddha del passato cominceranno a germogliare, a sbocciare. Comincerete a fiorire.
La ruota che il Buddha aveva messo in moto si è fermata. Dev’essere girata di nuovo. Questo sarà il mio e il vostro compito vitale, cioè che la ruota sia girata di nuovo. Quando avrà ricominciato a girare, avrà altri venticinque secoli di vita. Quando avrà ricominciato a girare, continuerà a girare almeno per altri venticinque secoli.
Deve essere sempre ripetuto, perché ogni cosa perde slancio, tutto funziona secondo una legge di natura, l’entropia.
Lanci una pietra, la lanci con grande energia, ma essa arriva alla distanza di poche centinaia di metri e cade. Esattamente come il Dhamma: dev’essere continuamente ravvivato. Respira per venticinque secoli, poi muore. Tutto ciò che è nato deve morire.
Voi siete la gente di cui Buddha ha parlato. Voi siete la gente su cui faccio affidamento. La ruota del Dhamma si è fermata: deve essere rimessa in movimento”. 2
Tratto dal libro di Jack Allanach (Swami Krishna Prem) Osho, India and Me, A Tale of Sexual and Spiritual Transformation (disponibile, in inglese, www.lulu.com)
Testi di Osho tratti da:
1. The Open Door #4
2. Il Sutra del Diamante, Edizioni del Cigno
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