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newsletter n. 055

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Domande su domande

Tra conoscenza e ignoranza,
innocenza e illuminazione



Preziosi testi apparsi su Osho Times n. 217

 


Osho,
da quando sono qui, mi sento lacerato tra il desiderio di farti una domanda, e quindi espormi, e fare di tutto per evitarlo. È come se fossi bloccato in questa posizione da anni. Cos’è questa paura?


Esiste solo una paura fondamentale.
Tutte le altre piccole paure sono un sottoprodotto di quella paura fondamentale che ogni essere umano porta con sé: la paura di perdere se stessi. Può essere della morte, può essere dell’amore, ma la paura è la stessa: hai paura di perdere te stesso.
E la cosa più strana è che solo le persone che non hanno se stesse hanno paura di perdersi. Chi ha se stesso non ha paura. È quindi realmente una questione di esporsi. Non hai nulla da perdere, ma credi di avere qualcosa da perdere.
Ero in viaggio con Mulla Nasruddin e arrivò il controllore. Gli mostrai il mio biglietto e Mulla iniziò a cercare il suo. Aprì una delle sue valigie, poi un’altra, controllò tutte le tasche – cappotto, pantaloni, camicia – e mi accorsi che stava evitando una tasca.
Guardandolo, persino il controllore disse: “Non preoccuparti. Sei una persona ben conosciuta. Non viaggeresti senza biglietto, deve essere da qualche parte. Hai così tanti bagagli” disse “tornerò al secondo giro. Per allora lo avrai trovato”. Se ne andò e Mulla stava ancora sudando e cercando il biglietto. Dissi: “Mulla, noto solo una cosa, stai cercando ovunque, ma non guardi mai in una tasca”. Mulla disse: “Non sollevare la questione, visto che sono già in grande difficoltà”. Dissi: “Cosa ha a che fare quella tasca con la difficoltà?”. Rispose: “Tutto! Quello è l’unico posto in cui mi auguro che il biglietto possa essere e non voglio perdere la speranza. Prima lasciami guardare in tutti gli altri posti. Quella è la mia ultima spiaggia, lo so anch’io che la sto evitando. Il controllore stava guardando quella tasca e anche tu la stavi guardando. Non è che io non ne sia consapevole. La sto evitando completamente e consapevolmente, perché se il biglietto non è lì non è da nessuna parte”.

La paura di avvicinarsi è la paura di esporsi.
Chi lo sa? Avvicinandoti al maestro, in sua presenza, nella sua luce potresti scoprire che non esisti. E sarebbe quasi una morte... più grande della morte. Per questo la gente si mantiene a una certa distanza. Guardando gli animali selvatici nella giungla, o tra le montagne, gli scienziati sono giunti a una conclusione: hanno un imperativo territoriale, ogni animale ha il suo territorio. Se non entri nel suo territorio non ti dà alcun fastidio, ma se entri nel suo territorio sei in pericolo, potrebbe attaccarti. Ma in realtà è lui che si sente in pericolo: sei nel suo territorio, ti stai avvicinando, e chissà se sei un amico o un nemico?
E gli animali hanno uno strano modo di definire la linea di demarcazione del loro territorio. Vedi i cani far pipì? Stanno marcando il loro territorio. Ogni cane ha il suo territorio e lo definisce non con muri e recinzioni visibili, ma attraverso l’odore. Gli altri cani lo fiutano immediatamente: “Questo territorio appartiene a qualche cane, attenzione”.
E lo stesso accade anche ai leoni che procedono facendo pipì lungo un territorio esteso. E la loro urina ha un odore molto forte, nessun animale è così insensibile da non percepirlo. E quando ne sente l’odore, eviterà di avvicinarsi, è zona vietata. Gli scienziati che studiano questi fenomeni sono giunti a una conclusione: perché questi animali sono così interessati a controllare un certo spazio e a non permettere ad altri di accedervi? Hanno scoperto che è a causa della paura. L’altro animale rappresenta la morte. È meglio avvertirlo e, prima che l’altro attacchi, il modo migliore per difendersi è attaccare. Quindi, se qualcuno entra nel tuo territorio lo attacchi prima che lui possa attaccare te; e chi attacca per primo ha più probabilità di vincere.

Nei giardini zoologici, dove l’uomo ha tenuto gli animali in spazi angusti...
Gli psicologi sono rimasti colpiti dall’apprendere che, in natura, gli animali non diventano mai pazzi, non si suicidano e non attaccano mai la loro specie.
Ma in uno zoo cominciano a fare cose strane: cominciano ad attaccare la loro specie. Diversamente, tranne l’uomo, nessun animale attacca la propria specie. Si tratta di una prerogativa dell’umanità: solo l’uomo uccide altri esseri umani. Nessun leone uccide un altro leone. Ma in uno zoo succede che perdono tutta la loro naturale intelligenza istintiva e cominciano a diventare pazzi furiosi. E, stranamente, iniziano a suicidarsi. Il motivo è che gli è stato portato via il territorio e vivono costantemente nella paura. Così tanti animali così vicini… non riescono a dormire, non riescono a rilassarsi, l’altro animale può attaccare. Hanno perso la libertà, hanno perso il sonno, hanno perso la salute mentale.
E quando vivi in queste condizioni, arriva il momento in cui è meglio suicidarsi piuttosto che vivere in una tale tortura. Non vedi la tortura perché non sai che soffrono per un motivo particolare: hanno bisogno di spazio.
E man mano che l’umanità è cresciuta come popolazione, sono cresciuti gli omicidi, sono cresciuti i crimini... Le persone si suicidano come niente. La guerra sembra l’unica cosa per cui ci stiamo preparando; sembra che sia l’unica cosa per cui siamo nati. Forse è l’imperativo territoriale. Forse l’uomo ha perso la percezione dello spazio. Basta osservare che imperativo territoriale rimane in un treno. O per la strada. Eppure, se guardi con attenzione, anche su un treno le persone si sistemano in modo che nessuno le tocchi, facendo ancora un tentativo estremo per mantenere una certa distanza. Possono essere pochi centimetri, ma anche una piccola distanza darà loro lo spazio per respirare. Psicologicamente l’uomo ha paura di avvicinarsi a qualcuno la cui presenza possa diventare motivo per esporsi, i cui occhi possono diventare così penetranti, come raggi X che possono vedere attraverso.
E hai paura che forse non troverà nulla: non c’è nessuno, la casa è vuota.
Lo stesso vale per le domande: hai paura di fare autentiche domande provenienti dalla tua ignoranza perché vorrebbe dire esporre la tua ignoranza. Tutti fingono di sapere.

Nel mio villaggio c’era un uomo... un po’ fuori di testa, quindi mi interessava molto. Mi hanno sempre interessato le persone un po’ fuori, sono persone speciali. Il suo nome era Sunderlal, ma lo chiamavo Dottor Sunderlal. In un primo momento non riusciva a crederci: perché lo chiamavo “Dottor”? Mi chiese: “Hai detto Dottor?”. Dissi: “Tu sei un super laureato. In questo villaggio nessuno ne sa più di te”.
Lui disse: “Questo è vero”. Dissi: “In questo villaggio sei un Dottore”. Chiese: “Stai scherzando?”. Risposi: “Perché dovrei scherzare? Un fatto è un fatto. Se vuoi posso portare alcune persone come testimoni”.
Disse: “No, no, non c’è bisogno. Mi fido di te: se lo dici tu, deve essere vero”.
Il giorno dopo vidi che aveva appeso un cartello sulla sua casa: Dottor Sunderlal. Tutta la città era in subbuglio... improvvisamente questo paz­zo... “Quale università gli ha dato una laurea?”. Andai a sua casa e gli dissi: “Hai fatto la cosa giusta, non c’entra l’università: che diritto ha di darti un dottorato? Solo tu puoi certificarlo”. Disse: “È vero. Mio padre ha detto: ‘Sei un idiota, hai scritto Dottor Sunderlal e ora verrà la polizia! Ti caccerai in qualche guaio, non ascoltare quell’uomo’”. Risposi: “Non c’è dubbio, spetta a te certificare che ‘In questo villaggio sono la persona che ne sa di più. Se qualcuno ha dei dubbi, la sfida è aperta!”. Disse: “Dovrebbe essere scritto sotto il cartello?”. Dissi: “Dovrebbe essere scritto sotto il cartello”.
Quindi fece un cartello su cui scrisse: “Questa è un’autocertificazione che in questo villaggio io sono la persona che ne sa di più. E se qualcuno ha dei dubbi la sfida per un confronto è aperta”. A quel punto, chi voleva discutere con quel tipo? Era così pazzo! Non si presentò nessuno. E lui stava seduto su una sedia accanto al cartello, in attesa che arrivasse qualcuno. Gli chiesi due o tre volte: “È venuto qualcuno?”, ma lui disse sempre: “Nessuno... la gente arriva, legge e se ne va! Anche mio padre ha detto che deve esserci qualcosa di vero, visto che nessuno sta facendo obiezioni. È venuto anche l’ispettore di polizia, ha letto ed è andato via: ‘Se si tratta di un’autocertificazione…’”.
Qualche anno più tardi, l’uomo morì e morì come “Dottor Sunderlal”. Sui giornali fu stampato: “È morto il Dottor Sunderlal”. E nessuno lo ha mai disturbato o gli ha chiesto nulla, perché nessuno era pronto ad accettare la sfida. Tutti avevano paura, poiché avrebbero dovuto discutere con quel matto... Avrebbe potuto dire qualsiasi cosa! Avrebbe potuto sollevare do­mande a cui non era possibile rispondere, avrebbe potuto criticare qualunque cosa. E tutti sapevano che io lo stavo spalleggiando. Gli avevo detto: “Non preoccuparti. Se qualcuno ac­cetta la sfida io sarò al tuo fianco per aiutarti”. Disse: “Non sono preoccupato. Ho sconfitto mia moglie, mio cugino, mio fratello. Ho sconfitto tutta la mia famiglia e so che in questo villaggio sono la media, quindi ho sconfitto il villaggio. Dovrei cercare di espandere il territorio?”.
Dissi: “No, devi mantenere il villaggio come territorio. È sufficiente, perché hai la laurea, lo hai certificato. Non c’è bisogno di espandere il territorio, perché potrebbe creare problemi. In questo villaggio sei l’unico che ha perso la testa. In altri villaggi potrebbe esserci qualcuno che ha perso la testa come te e sorgerebbero problemi inutili. Rimani semplicemente in silenzio”.
E la gente iniziò a chiamarlo “Dottor Sunderlal”. E via via dimenticò tutto l’accaduto... Fu accettato come Dottor Sunderlal. Diventò praticamente il suo nome.

La conoscenza… autocertificata o meno, in fondo credi di sapere tutto. E tutto ciò che sai non è tuo. Avvicinandoti a una persona nella cui luce la tua conoscenza inizierebbe a sciogliersi, a scomparire, a evaporare, lasciandoti nudo nella tua ignoranza, hai paura persino di porre una domanda.
Ho visto gente, migliaia di persone, nel­la mia vita, pormi domande dicendo: “Questa domanda è di un mio ami­co”. E quando incontravo le persone in privato, dicevo loro: “La cosa mi­glio­re sarebbe mandare il tuo amico. E anche lui potrebbe dire la stessa cosa: ‘Questa domanda è di un mio amico’”. La persona rispondeva: “Che vuoi dire?”.
Io dicevo: “Hai capito... questa domanda è tua, ma non hai nemmeno il coraggio di dire: ‘Questa è la mia domanda’. La conoscenza che sostieni essere tua, proviene da altri. E la domanda che sostieni sia di un amico è tua”. Aggiungevo: “Porta il tuo amico. Domani, vieni con il tuo amico. Mi piacerebbe vedere l’amico, perché la domanda è molto importante”. Lui diceva: “La domanda è importante?”. Io aggiungevo: “È una domanda molto importante e vorrei vedere questa persona”. Lui diceva: “Perdonami, veramente è una mia domanda”.
La gente ha paura di esporsi. Ma una delle regole fondamentali, quando sei con un maestro, è abbandonare le tue paure e restare nudo nella tua ignoranza, perché da quella ignoranza puoi raggiungere la tua innocenza. Dalla conoscenza non esiste alcun percorso verso l’innocenza. Soltanto dall’ignoranza c’è un sentiero verso l’innocenza.
Quindi lo ripeto di nuovo: una vasta conoscenza presa in prestito non è di alcuna importanza. Ma la tua piccola ignoranza è un tesoro, perché da quell’ignoranza si apre la porta verso l’innocenza. Ed è l’innocenza che diventa la luce, che diventa l’incenso e la fragranza.

Tratto da: Osho, Beyond Enlightenment #2



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