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newsletter n. 012

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Siste Sciamanen

 

Unonda fresca in questa calda estate italiana...
Ario Sciolari, guida alpina, esploratore polare e monaco Zen “non monaco”, come ama definirsi, ci ha inviato il racconto della sua esperienza del solstizio d’inverno del 21/12/2012 vissuto al Nord della Svezia, in una baita di legno nella neve, lontano da tutto e da tutti...

 
Da un articolo apparso su Osho Times n 199
 
 
 
 
Intimo col Pianeta

20 dicembre: il Sole non sorge più da settimane.
Il quotidiano del piccolo paese giù a valle riporta il bollettino meteo in un modo curioso, in questo periodo dell’anno: se si tratta di giornate di nubi o di neve, queste vengono rappresentate come accade ovunque nel mondo: col disegno di una nube o con quello dei cristalli di neve. Ma se si tratta di dover annunciare una giornata serena, a differenza di altrove (ove essa vien rappresentata con un bel Sole splendente), quassù la si disegna così: una linea scura (a rappresentare l’orizzonte) e, appena sotto, il Sole. E in basso, il commento: “Det er mørketid”…
Mørketid, la chiamano qui: il Tempo dell’Oscurità. Occorre attendere fino ai primi giorni di febbraio per poter tornare a vedere (ma solo per brevi istanti), il ritorno dell’astro: sarà basso, radente l’orizzonte, incapace di alzarsi, rosso… eppur Sole, eppur ritornato! Era una stagione profondamente sentita dalle popolazioni native del Nord, dai Siberiani ai Sami agli Inuit, gente di antichi Sciamani. Che in essa, nel profondo inverno, trovavano l’intimità più autentica con il Pianeta. Alcuni, come gli Evenki, popolazione della Siberia orientale, temevano invece che il Sole mai più sarebbe comparso, che il mondo sarebbe rimasto avvolto in un buio senza fine, così come, nelle loro leggende, era stato per tempi immemori, prima che apparissero i primi cacciatori: un mondo avvolto solo dalle stelle. Per tale ragione, nella memoria e nelle storie di queste persone, la Via Lattea viene spiegata e narrata a questo modo: è la scia degli sci lasciata da quel primo passaggio degli Antenati dei Cacciatori… immagine bellissima!

Il Sole non sorge più da settimane; “Det er mørketid”: è il periodo dell’oscurità. Il Sole non si vede e il breve chiarore crepuscolare del giorno (dalle dieci di mattina alle due del pomeriggio) avvolge le terre e i boschi immobili, ammantati nella polvere bianca, in un silenzio profondo; quello che Jack London, nei suoi racconti chiamava “Il Grande Silenzio Bianco”: è possente, ti penetra. E questo chiarore accennato appena, così breve, dona un’impressione che poi è la semplice realtà: che il buio torni immediato. Non fa a tempo a divenir un po’ chiaro che ecco, è già scuro di nuovo. E questo (ben lo vivevano gli antichi Sciamani), rende possibile l’andar dentro, l’entrare nel profondo: di se stessi; del Pianeta Madre che ci ospita; proprio come fa l’orso entrando nel suo lungo letargo.
Poiché, cos’altro è questo periodo del solstizio d’inverno se non il porto estremo della Terra, il suo luogo più lontano dalla luce del Sole, luogo più proteso al silenzio e agli spazi siderali del vasto universo; se non, dunque, il luogo di maggior intimità che il nostro pianeta raggiunge nel corso di un anno? E cosa più bella e Sacra dunque, quantomeno al mio cuore, è da sempre poter partecipare a questo passaggio della Terra, antico rituale: divenir intimo con lei; poterci essere; poterne ascoltare appieno il Canto. E in esso, tornare a riconoscere il mio; non son che uno.

È dicembre, mancano poche ore al giro di boa del solstizio, ma già da un paio di mesi ho iniziato ad ascoltare, a fermarmi: tutto pur di esserci appieno. E questo, sin da quando, adolescente, scoprivo la bellezza di sedere in Zen nella “Stagione quando le Giornate Divengon Corte” e magari, fuori, la neve scende silenziosa; percepire il Pianeta volgere verso il suo luogo più intimo: è un richiamo Sacro, imperdibile.
E poi son quassù, tra i boschi del Grande Nord, qui ove il solstizio è veramente un passaggio nel buio; qui ove, quindi, è davvero possibile coglierlo appieno. Percepisco il Pianeta Casa come una meravigliosa astronave: l’Astronave Terra. E quindi, la mia vita (le nostre vite!), su di lei, non son che uno splendido, inconcepibile Viaggio Attraverso le Stelle a bordo di quest’Astronave. Nulla di più bello… E cosa può contare di più, quando cogli questo? E così, quando son le tre del pomeriggio e fuori, oltre i boschi ammantati di neve che circondano la mia piccola baita di tronchi, il buio è già sceso, io ho da tempo acceso la stufa e la candela e guardo fuori in questa oscurità profonda che non si riesce minimamente a scalfire ed allora mi coglie una vertigine di pura bellezza. Poiché lo sento, il viaggio, la sento, l’Astronave: non mi è difficile quassù, in questo buio, dal mio nido rischiarato appena, come un piccolo oblò che osserva.

A volte, le stelle, son così profonde…
Sono uscito poco fa per dare da mangiare ai miei due lupi, come ogni sera. Alzo lo sguardo alla volta celeste e per un minuto intero… piango: di Bellezza. Si vede l’intera Galassia! “Avete visto la nitidezza di Ursa Major, Ursa Minor e Stella Polare?”, scrivo subito. “E Orione, dall’altra parte, o Venere così luminosa che sembra esplodere! È come se si volesse preparare l’evento: stanotte la Terra sarà allineata col Sole e col centro stesso della Galassia, evento che accade solo ogni ventiseimila anni!”.
Osservo il cielo nella notte gelida, piccolo omino nel grembo di questa Madre, piccolo omino in piedi, in profonda riverenza, su questo Pianeta Casa. Osservo e piango e devo allargare le braccia come dovessi dire: così è troppo, così è incontenibile. Poi, calo lo sguardo appena, sull’immobile bosco di conifere seppellite nella polvere bianca: e c’è la piccola baita in tronchi nella quale abito e c’è, sui rami rigonfi di neve più prossimi alla finestra, il pacato, discreto lucore della candela che rischiara l’interno del mio nido. E quella luce dona calore anche nella notte a 38 gradi sotto zero. E quel lucore risalta tra le stelle come un’isola sperduta in un oceano che non ha fondo, come l’Universo vastissimo che ci ospita. Risalta con tremenda forza il lucore: “Son qui per questo”, sento salire una voce, “son qui per Ascoltare questo e per coglierlo, il Viaggio. Per non perdermene un solo frammento”. E questo nido, allora, ecco, diviene la mia “Postazione d’Ascolto”: Postazione d’Ascolto tra le Stelle…
Ora, dicembre, come ogni anno mi trovo quassù nel Nord, lontano dalle mie Dolomiti; è come se, ogni tan­to, mi prendessi un ampio momento (un’intera stagione) per poter anch’io, come gli orsi, entrar dentro e, semplicemente, restare in Ascolto. E ogni volta, nello scrivere a Marga  (dell’Osho Times), che invece “sverna” in India, ai tropici, o nel mandarle alcune foto di boschi incappucciati sotto un cielo gelido che non conosce più alcun Sole, si crea uno scambio a dir poco curioso; poiché se per lei son inconcepibili i -35, per me lo è un dicembre col Sole e con +35! Parliamo da mondi agli antipodi, eppure, pur senza esserci ancora mai incontrati, ci comprendiamo tramite il Linguaggio Antico, l’Antico Canto della Terra che oggi non è più e che ogni essere umano accomuna (o meglio, dovrebbe accomunare). Per questo, per quanto distanti l’uno dall’altra su questa meravigliosa grande Terra, l’affinità è stata immediata ed è profonda (almeno, questo quel che sento io). Per questo, nello scrivere alla rivista è come se scrivessi a lei e al contempo, lo faccio dall’unico luogo frequentato da umani ch’io ancora conosca dove questo possa accadere: parlare l’Antico Linguaggio, quello connesso al nostro centro più antico.
Erano un paio di inverni che pensavo di scriverle; nel mio consunto quadernetto degli appunti, tra mille altre note ormai spuntate poiché compiute, restava questa “voce”, ancora solitaria, ancora in attesa: “Scritti possenti per Marga”. Ma possenti perché? Non è già semplicemente possente esser vivi, esistere, qui, ora, all’interno della nostra pelle? Cosa può esserci di più possente di questo? Nulla di certo, era solo una nota per me; sta a significare: “scritto che racconti del momento più, al mio cuore, intimo dell’anno, quello del passaggio”, appunto.
Dunque, eccomi qui, e se solo ora ho deciso di scrivere (e intanto sono le 15.00 passate da pochi minuti e il buio, oltre la finestra della baita è calato scuro e trapuntato di stelle), è per un’unica ragione: l’importanza di questo solstizio 2012. Al punto che avrei voluto farlo uscire proprio col numero di dicembre, o, per lo meno di gennaio 2013. Ma mi son preso tardi o meglio, nel mio vivere lento, non rammento mai che i tempi delle redazioni son ben diversi. Allora, come nulla fosse, Marga mi ha proposto ciò cui mai sarei arrivato: “Ario, il tuo pezzo non potrà uscire ora, non c’è più tempo; però… perché non farlo uscire a giugno?”. Ma sì, ho subito esultato, che idea! Far uscire a giugno questo scritto sul buio solstizio d’inverno, farlo uscire nel periodo della massima luce: il solstizio d’estate!

Parlare l’Antico Linguaggio, dicevo poco fa. Quello che, a mio sentire, mai come in questo periodo storico, il Pianeta e i suoi figli (noi), hanno perso. Si è persa ogni connessione con le origini, e questa, come un albero sradicato, è una condizione che non può farci sopravvivere ancora a lungo; anche un albero spazzato via dalla forza del vento, comunque, resta e torna alla Terra. Siamo solo noi come razza umana, che abbiamo troncato ogni radice, ci siamo disconnessi. E tutto con una rapidità davvero esemplare; ancora solo trenta o quaranta anni fa il mondo aveva un centro, le persone avevano un’anima, i bimbi potevano giocare all’aperto e tornare a casa con le ginocchia sporche e sbucciate. Chi le ricorda più, ad esempio, quelle ginocchia? Abbiamo veramente perso tutto? Abbiamo veramente ricoperto tutto ciò che, ancora, era autentico, genuino? L’aver troppo, l’aver tutto e l’averlo subito (è questo il nuovo mantra?): come più è possibile riconoscere il valore di esserci? Adesso tutto accade solo tramite uno schermo, tutto oggi, solamente, appare. Un tempo, si era. Si apparteneva. Me lo ricordano ad esempio i vecchi scarponi con i quali, adolescente andavo sulle montagne, o lo zaino delle mie prime scalate: roba semplice, faceva male alla schiena certo, ma cosa contava questo, come l’aver i piedi freddi o il non aver il cellulare o l’ultimo modello di giacca in goretex; cosa contava quando, unicamente era il canto del mio cuore, il mio entusiasmo, a farmi uscire nel mondo con stupore e desiderio mai sazio? Ancora oggi, a quarantacinque anni, continuo a esplorare, continuo a stupirmi come quando ne avevo sedici. Mi osservano, consunti dal tanto utilizzo, questi oggetti di quando il mondo era ancora semplice, mi osservano mesti, e forse, non è soltanto nostalgia di un tempo che fu.
In tanti abbiamo sentito parlare di questo 2012 nel corso del nostro divenire adulti; in tanti forse, come è accaduto a me, abbiamo preso a osservarlo (via via che si avvicinava) con un leggero sen­so di speranza. E ogni volta che gli scettici mi hanno chiesto: “Ma tu ci cre­di? Quante volte hanno parlato di fi­ne del mondo e poi…tutta una bufala!”.
“Ma…”, avrei ogni volta voluto rispondere “qui non si tratta di crederci! Qui, e con tutto me stesso me lo auguro (e sin da troppo tempo),
sì, il mondo deve finire, questo mondo!”. Non si tratta dunque di fine del mondo, bensì della fine di un mondo; poiché, così, semplicemente non si può più andare avanti. Che poi, per di più, e questo l’ho scoperto più tardi, anche i Maya, oltre cinquemila anni fa, avessero indicato in questa nostra epoca uno dei momenti più oscuri che l’umanità avrebbe mai conosciuto, be’ questo non può che rallegrarmi. Nel senso che proprio con questo dicembre, millenni fa, avrebbero predetto la fine di quest’era oscura. Della quale, e da decenni, in tanti siamo convinti di non poterne più. È dunque un passaggio questo solstizio, la “catarsi” dal buio alla luce, da uno stadio inferiore della nostra crescita come umanità a quello successivo, superiore? Non più dunque Homo Consumantis, bensì Homo Luminosus? È stato ciò a cui abbiamo ridotto le nostre vite e il nostro pianeta casa (peggio di così non si poteva), è stato esser scesi così in basso da poter creare ora, come sempre solamente accade, la formidabile energia propulsiva per poterci rialzare, per questa nuova crescita, per questo nuovo slancio in avanti dell’umanità? Maya o no, è quanto, semplicemente, il Pianeta e alcuni di noi con lui, anelano da tempo, dall’orlo di non farcela più.
Quassù, un tempo, esattamente dalle colline boscose da cui scrivo, abitavano i Noaj’de, sciamani del popolo dei Sami; gli ultimi, ancora meno di un secolo fa (come Unnatj o Pirkitt Amma), a nascondersi nelle profondità più selvagge di questi boschi per sfuggire alla persecuzione incessante e violenta della chiesa. Questa, tramite i missionari, invase tali e molte altre terre del Pianeta; lo fece come la peste, come un cancro, distruggendo tutto ciò che era diverso con la pretesa di “illuminare i selvaggi”. Ora, la peste, benché diversa, persiste. “It’s like a cancer”, mi ha detto tempo fa un anziano Sami. “Nothing more like before. No more people like my grandfathers… No more nothing. Just money, just things. This kill kids. This very sad” (È come un cancro. Nulla più come prima. Non più persone come miei antenati. Non più nulla. Solo soldi, solo cose. Questo uccidere bambini. Questo molto triste).
Non più nulla: sì, questo è triste. Come l’esser solo, o quasi, quassù, in Ascolto.
Perseguire dunque la Madre Terra e non, come l’intero mondo attorno, la Madre Consumismo, è trovarmi spesso con un senso di soffocamento. Per questo, ogni tanto, debbo venir quassù e trascorrere l’inverno in Ascolto. Per questo, forse, nel piccolo paese giù a valle (cioè, a 150 km di soli boschi e laghi e monti selvaggi da qui), hanno preso a chiamarmi Siste Sciamanen, l’ultimo sciamano? Ben lungi dal potermi considerare tale, son qui, e questo lo so per certo, per Ascoltare, in riverenza Profonda, una Terra che è madre. E nel farlo, mi accosto a loro, a Unnatj e Pirkitt Amma, che per ultimi lo fecero, nascondendosi proprio quassù.
È dunque la sera del solstizio, quello del quale i Maya, cinquemila anni fa, ci indicarono. È anche, come accennato all’inizio, il momento di un evento estremamente raro, evento che si verifica solo ogni ventiseimila anni: la Terra e il Sole son perfettamente allineati con il centro della Galassia. Quest’ultimo, nella visione dei Maya, rappresentava il centro dal quale la vita stessa dell’universo e quindi degli umani, si crea. Quale portale ancora una volta, penso tra me, dal quale poterci aprire a questo più che indispensabile balzo quantico? Ma, come ogni volta, ognuno dovrà pensarci da sé. 
Esco, ancora una volta, sotto le stelle profonde. Ora il termometro segna
-34. La Stella Polare mi fissa, solo lei non si è mossa nel cielo. Le altre stelle hanno cambiato posizione: il Viaggio continua, un viaggio di miliardi di anni… quanto siamo piccoli… quanto siamo immensi.
Mi auguro, ora che si leggerà questo mio scritto a giugno (mese della luce), che la nuova Era abbia davvero preso a illuminare; coinvolgendo più consapevolezze, scuotendo dal torpore più e più cuori. Di questo abbiamo bisogno. Per noi stessi. Per la meravigliosa creatura chiamata Umanità

Apro gli occhi nella semioscurità delle 8; è la mattina del 21 dicembre 2012 e lo stupore mi pervade: “Ma quale luce è in cielo? Le conifere immobili e incappucciate sembran trattener il respiro di fronte a una bellezza mai vista. E con loro le montagne, gli animali di quassù, i miei occhi… Se il mondo dovrà davvero rinascere, sì, sarà questa la Luce che sceglierà di indossare.
Grazie, per avermi consentito di esserci.

Ario Sciolari


 



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