Marga: Ho visto che presenterai all’OshoFestival un lavoro sulla paura. Puoi spiegarmi di cosa si tratta?
Prashantam: È un’esplorazione sulla libertà dalla paura, che è la sola libertà che esista. Non c’è altra libertà se non quella dalla paura.
La paura – e cito Osho perché è da lui che l’ho sentita definire così per la prima volta – può essere descritta come un serpente a 3 teste nel quale, a seconda dei momenti e delle situazioni, una testa diventa predominante sulle altre. Le 3 teste sono la paura di morire, la paura di impazzire e la paura di perdere il controllo, associata alla paura dell’orgasmo.
Nella mia ricerca personale, posso dire di non aver mai trovato altri tipi di paura e che tutte le paure sono riconducibili a queste 3.
E la mia ricerca risale a qualcosa che mi è successo qualche anno fa, credo fosse il 2008, durante un pellegrinaggio a piedi sul Monte Kaylash in Tibet... Eravamo in 4, più la guida nepalese.
La camminata sul Monte Kaylash è soprannominata Kora e dura circa 6 giorni, in cui si percorrono circa 130 km a piedi. Richiede un grande sforzo fisico e per me è stata un’esperienza assolutamente unica.
A metà circa del pellegrinaggio, mi successe una cosa... Premetto che nella camminata si sfiorano i 6000 metri di altitudine e questo comporta che la pressione sulla testa diventi piuttosto dolorosa; esistono dei farmaci per attenuare l’effetto dell’altitudine, ma essendo la prima volta che mi trovavo in un contesto del genere non ne ero a conoscenza, quindi non presi nulla. Progressivamente il dolore alla testa si fece sempre più acuto fino a raggiungere un livello insopportabile. Una notte diventò così travolgente che c’era solo dolore fisico, la testa mi scoppiava come se fosse piena di aghi, la sentivo come un’enorme zucca in procinto di esplodere. Queste sono sensazioni del corpo di cui oggi non ho memoria fisica, quello che so è che mi sono trovato alle prese con ogni genere di dolore e che a un certo punto deliravo.
Con me c’era un amico italiano, condividevamo uno spazio piccolissimo, una tenda proprio accanto al campo base.
Le mie difese erano crollate, urlavo in maniera incontrollata e in quel momento la sola via d’uscita mi sembrava la morte: al cospetto di quel dolore atroce mi appariva come un enorme sollievo. Non so dire se a quel punto mi fossi arreso alla situazione – perché so che non desideravo altro che quel dolore terribile smettesse – fatto sta che devo aver lasciato il corpo, perché mi ritrovai in uno stato leggerissimo e pieno di beatitudine dove non c’era dolore, dove tutto era cristallino, pervaso da un profondo senso di consapevolezza e di chiarezza.
In quel preciso momento, per fartela breve, mi fu chiaro che in tutta la mia vita non avevo fatto altro che sforzarmi di essere qualcun altro e che in realtà alla radice di quella lotta e della tensione continua, c’era proprio la paura. E nel momento in cui questa consapevolezza si rivelò, fu come se tutti i conflitti, tutte le tensioni, tutte le ricerche, qualsiasi cosa, diventassero di colpo irrilevanti.
E la luce era davvero travolgente, c’era solo luce, e nient’altro! Era una sorta di luce bianca, senza colore, era soltanto luce, non c’era altro. C’era tanta gioia... E il senso di sentirmi un idiota! Ridevo di me per tutto il tempo che avevo sciupato, tutto la fatica... Ed ero così assurdamente felice!
E iniziò tutto con quel dolore atroce! Fu quello a distruggere tutti i miei strati di protezione, capisci? E oggi posso gridare ai quattro venti – o bisbigliarlo – che il dolore è un grande maestro!
Sì, oggi posso garantire che è così: il dolore insegna davvero. E insegna come pochi maestri fanno, e sono certo che tutti siamo in grado di riconoscerlo.
Perciò mi sento di invitare le persone a non evitare di guardare il dolore – quando è presente ovviamente – perché guardarlo può impedire che si crei di nuovo. E di considerare anche il fatto che siamo noi a crearlo, questo è chiaro, almeno per me.
Marga: Cosa intendi?
Prashantam: Intendo che siamo i peggiori nemici di noi stessi, creiamo ciò che ci fa soffrire. Ed è questo che l’ego fa tanta fatica a vedere: quanto siamo stupidi e come continuiamo a vivere inconsapevolmente. Abbiamo un atteggiamento molto arrogante rispetto a ciò che abbiamo realizzato e compreso, ma sotto sotto sappiamo molto poco di noi stessi. Tuttavia non cessiamo mai di sentirci soddisfatti di questo modesto assaggio, mentre in realtà quando troviamo il nostro vero sé è un’esperienza molto più profonda. E sono molto rari i momenti in cui lo sentiamo… È uno spazio interiore vulnerabile, fragile, dove non esistono parole, c’è molto silenzio, e ti mette definitivamente a nudo.
I tibetani semplificano il loro approccio alla vita in questo modo: “Dolore e trascendenza”, il ciclo di dolore e trascendenza. Hai presente i gompa, i templi tibetani? Al loro interno ci sono delle “ruote di preghiera” che la gente fa girare, e per certi versi possono essere paragonate al mala induista: sono entrambi simboli dell’incessante ciclo della vita che oscilla tra dolore e trascendenza.
Questo non mi appartiene, riporto cose che ho sentito, quello che invece ho toccato con mano è che il dolore è un insegnante, un maestro.
Marga: Concordo, il dolore è un maestro, anche se personalmente, quando posso, evito sia il dolore che le montagne!
Prashantam: Sì, ma è il dolore che non evita te!
Marga: Eh già... Proprio ieri, mi pare fosse in un film, c’era qualcuno che parlava di quei ricordi che rimangono con te per tutta la vita e un personaggio del film diceva che non sei tu a ricordarli, sono loro a ricordare te, a fissarti dritto negli occhi. E te li scordi per un attimo, ma loro sono sempre lì.
Ci sono cose nella vita che sono così: non sei tu a farle, o a sceglierle, sono lì e non puoi farci nulla. E la paura forte è proprio verso ciò che non possiamo controllare.
Ora, è anche vero che i ricordi sono una cosa e il dolore un’altra, ma per certi versi si comportano in maniera simile: ci sono, che ti piaccia oppure no. A dispetto di quello che fai o non fai, quando ti tocca ti tocca.
E dunque qual è la strada verso la trascendenza? È il momento in cui ti ci trovi in mezzo, perché non puoi evitarlo?
Prashantam: Nel mio caso la trascendenza è accaduta quando è cessata la lotta, il conflitto. A quel punto è subentrata la gratitudine. Per me la gratitudine completa il karma, chiude il cerchio, ti libera, e probabilmente è questa la trascendenza. Quindi non è la comprensione, anche se aiuta, e non è l’accettazione, che spesso non so neanche cosa sia. Per quanto ho sperimentato io a livello di sensazioni emotive e fisiche, la chiamo gratitudine. Non quella di cui parlano i cristiani, è una gratitudine incondizionata, che non richiede di essere ricambiata, di essere applaudita.
Marga: E tutto è iniziato con quell’esperienza al Kaylash?
Prashantam: Probabilmente quell’evento per me è stato un vero darshan di energia con Osho, perché è successo come ogni cosa importante nella mia vita: è Osho che ha piantato il seme in me. Non volto mai pagina, in qualsiasi cosa, senza la sensazione che Osho sia ovunque, dentro di me, attorno a me. Che mi guardi, che rida di me!
Tutte queste avventure che intraprendo sono in nome di quel seme che lui ha piantato.
Questo pellegrinaggio ebbe inizio nei discorsi in cui Osho parlava del Kaylash, questa montagna sacra a molte religioni – l’induismo, il buddhismo indiano e tibetano, il giainismo – tanto che la considerano un guru, un maestro.
E durante quei discorsi io stavo lì seduto ad ascoltare, sognando il giorno in cui sarei andato al Kaylash, senza la minima idea di come ci sarei arrivato.
Ricordo che quando parlava di Zarathustra – erano i primi discorsi al ritorno a Pune, dopo il Ranch – raccontava di un uomo che scendeva dalle montagne. E io lo osservavo, e potevo vedere che quell’uomo ero io e che dovevo scendere da quelle montagne. Così iniziò la mia passione per l’Himalaya...