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Nella tempesta

Racconti di Lahurbhai un anziano discepolo indiano che ha lavorato a stretto contatto con Osho sin dagli anni ‘60, da un’intervista di Sadhana pubblicata in hindi e tradotta direttamente in italiano per i lettori di Osho Times...
 
Da un articolo apparso su Osho Times n. 230
 
 

Pochissime persone riuscivano a stare vicino a Osho per un lungo periodo all’inizio del suo tempestoso lavoro. 
La maggior parte rimanevano un po’ e poi se ne andavano, così come erano venute. 
E poi magari ritornavano. 
Osho stesso aveva detto: “Nessuno può stare vicino a me per più di 6 mesi”.
Ma alcune persone – quelle che si sono lasciate andare, che sono riuscite a scorrere come l’acqua su una superficie liscia, senza trovare ostacoli – sono rimaste più a lungo. Una di loro si chiama Lahurbhai. 
Il suo nome da sannyasin, che pochissimi conoscono, è Chaitanya Sagar, Oceano di Consapevolezza, ma Osho lo chiamava Lahur. E certamente il suo amore per Osho è profondo come l’oceano. Per questo amore ha svolto compiti sempre molto difficili, e ha attraversato il fuoco senza diventare cenere. 
Ancora oggi Lahur, quando parla di Osho, non può fare a meno di piangere. E in questo oceano ci sono tanti bei ricordi come diamanti e perle, basta andare un po’ in profondità per riuscire a trovarli. 

Sadhana


Era il 21 marzo del 1967. 

Quel giorno a Mumbai si teneva un discorso dal titolo "Dio è morto?"

Fu un mio amico a invitarmi: “C’è un discorso di Acharya Rajneesh, vieni con me?”. Acharya Rajneesh era il nome di Osho allora. 

Io subito risposi: “No, non mi interessa”, pensando che fosse un qualche sadu giainista. Ma poi cambiai idea e ci andai. E compresi immediatamente che non era affatto un sadu, un santone, tanto meno giainista. 

Vidi la sua figura seduta che parlava… Con quella sciarpa, l’abito lungo che girava intorno alla vita, in mano un fazzoletto bianco di lino… Sembrava proprio che seduta là ci fosse una grande anima. Di quello che diceva non capivo niente, però lo guardavo e sentivo che dovevo incontrarlo di persona. 

Così mi informai su dove vivesse e seppi che era ospite di Garamdebi Yoga Lassi, che conoscevo. Ci andai. Lui era seduto su una sedia e c’erano intorno altre 8 o 10 persone, a cui parlava. Salutai e mi sedetti anche io. 

Quando finì di parlare si girò verso di me e mi chiese se volevo chiedergli qualcosa. Risposi: “No, non ho niente da chiedere”. 

Ma ero molto emozionato, commosso dalla sua presenza, quindi cominciai a seguirlo. Ovunque andasse, io lo seguivo. Poi cominciai a registrare i suoi discorsi, perché mi piaceva riascoltarli. 

Osho venne a saperlo e mi disse che voleva che i suoi discorsi fossero ascoltati e letti in tutto il mondo. Quindi cominciai a partecipare all’organizzazione, e poi a registrare, trascrivere, stampare, etc. 

Era un grande lavoro e ci volevano almeno 10 persone per fare tutto…

Nel 1965 io e alcuni amici di Mumbai e Pune avevamo aperto un centro, il Jivan Jagrut Kendra, a Mumbai, dedicato a vivere una vita risvegliata. Così usammo quella struttura.

Eravamo tutti volontari, guidati da un “direttore”. Ci furono diversi incontri in cui Osho ci spiegò che al momento avremmo dovuto essere in grado di sopportare un po’ di disagi. Ci diceva come comportarci con le persone che si avvicinavano. E diceva che ne sarebbero arrivate sempre di più, che adesso non era ancora niente, che il suo lavoro si sarebbe espanso e che presto saremmo stati in grado di lavorare con più agio.

Gli occidentali ancora non c’erano, cominciarono a venire solo dopo il 1970.

A Osho piaceva essere lui ad assegnarci il lavoro da fare. Se una persona era capace di fare qualcosa Osho glielo faceva fare… C’era chi stampava i libri, chi traduceva etc. 

A quel tempo non avevamo molto a disposizione. I discorsi li registravamo io e un’altra persona, Pathakji. Lui ascoltava e stenografava, poi andava a casa e trascriveva alla macchina da scrivere. Osho ci diceva di non cambiare nemmeno una parola di quello che diceva: “Li dovete stampare così come li ho pronunciati. E i miei libri non sono libri che leggi una volta e poi è finito tutto. Devi leggerli tante volte e ogni volta verranno fuori nuovi significati, per questo le pagine dei libri devono essere resistenti e la rilegatura deve essere solida”.

Ci disse anche che non dovevamo limitarci agli amici di Mumbai, che dovevamo espanderci in tutta l’India. Quindi creammo diversi di questi Kendra, tutti volontari, in altre città e lavoravamo insieme, coordinandoci. 

Ci fu un momento in cui si verificarono dei problemi coi volontari, quindi chiesi a Osho: “Come si fa a mettere pace tra questi volontari?”. Osho convocò me, Laxmi e Iswarbhai e ci disse: “Se queste persone non lavorano bene, le cose da fare dovete farle voi, prendetevene la responsabilità”. Ma nessuno di noi era in grado di prendersi altre responsabilità e quindi Osho ci disse: “Se dico a questa gente di smettere di lavorare e voi non potete prendervene la responsabilità, come faccio a portare avanti il mio lavoro? Almeno loro stanno lavorando, quindi lasciateli fare, e quello che è sbagliato piano piano si correggerà”. 

Il modo di lavorare di Osho era molto “semplice”: cambiava sempre le cose, oggi faceva una cosa, domani faceva esattamente il contrario… Per stare con lui dovevi essere pronto a tutto.

In quel periodo Osho mi chiedeva spesso di procurargli tante cose, come i vestiti di puro lino e cotone. Gli piacevano le cose molto belle, fatte a mano e io gliele facevo arrivare. Teneva sempre un asciugamano con sé, e doveva essere della marca Udkrilon, modello 4711. Io li facevo arrivare apposta per lui. Ma a volte le cose che chiedeva erano così strane che erano molto difficili da trovare. A volte ci mettevo anche settimane. Gli piaceva molto il gelato e anche la Coca-Cola, e quando uscivamo glieli compravamo sempre. Aveva anche un’altra passione: gli piacevano i cataloghi dei prodotti e quando vedeva un prodotto nuovo mi diceva di comprarglielo. 

Ogni tanto veniva troppa gente e Osho diceva a me e a Laxmi che alcune persone non voleva vederle. Così noi raccontavamo qualche balla e le mandavamo via. È capitato che incontrasse poi quelle stesse persone e dicesse loro: “Perché non ti vedo da tanto tempo?”. Loro dicevano che erano venute, ma che non erano riuscite a incontrarlo. Allora noi dicevamo: “Ma eri tu che non volevi incontrarle” e lui una volta ci disse: “Uno dei due deve prendersi la colpa e fare la figuraccia”. Ho sempre pensato che Osho ci stesse mettendo alla prova… Ma tutto quello che succedeva a noi piaceva, non ci siamo mai rimasti male, qualsiasi cosa facesse o dicesse… C’era gioia in quella tempesta.

Una volta una persona voleva incontrarlo. Io lo dissi a Osho che lo ricevette. Quella persona chiacchierò per un’ora! Quando se ne andò Osho si arrabbiò con me e disse: “Perché mi porti questo genere di persone? Questi sono asini, c’è solo spazzatura nel loro cervello”. 

Come ci piaceva quando si arrabbiava! Stare con lui era come stare in un altro mondo! Oggi mi sembra che tutto questo sia stato un sogno…

Una volta andammo a fare una camminata al mare, a Nareeman Point, Mumbai, e Osho mi disse: “Lahur, vedi questo mare? Io sono questo tipo di persona: ti porto in mezzo al mare e poi ti lascio lì. E tu devi nuotare, o ce la fai o affoghi” e non erano solo chiacchere...

Forse Osho voleva solo avvertirmi per il futuro… Perché ho preso tante botte dalle onde del mare, sono quasi affogato e dopo sono riuscito a risalire... 

Continua su Osho Times n. 230

 



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