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La vita che amo
Cambiare, crescere e trasformarsi è inevitabile. Esserne consapevoli un dono...  

di Darpan Maurizio Pirero
 
 
Da un articolo apparso su Osho Times n 233
 
la vita che amo

In questi due decenni della mia attività da “felicitàtore” – il modo con cui si riferiva a me una cliente, ora collaboratrice – ho incontrato migliaia di persone. 

Da una parte i “creativi”, quelli che sanno manifestare nella materia e che spesso, soprattutto se entrano nel mondo imprenditoriale, più ascendono la scala sociale e più sentono l’abisso interiore. 

Dall’altra i “ricercatori”, capaci magari di meditare per 10 ore al giorno, ma che poi, a volte, non riescono a relazionarsi con l’altro e a dare forma al loro anelito, fino a rifiutare tutto ciò che non è “spirituale”. 

Così ho dedicato la mia vita a comprendere se esistesse una via per l’integrazione tra questi due mondi. 

Ricordo un momento in particolare, tanti anni fa. Stavo assistendo a un gruppo a Miasto. Avevo portato una quindicina di partecipanti e Prafulla, il facilitatore, con il suo solito senso dell’umorismo, disse: “Ringraziamo Darpan per avere permesso questo gruppo!”. Terminata la risata generale, aggiunse: “Lui è un ponte”. Mi toccò profondamente quella frase, come se avesse dato un significato al mio modo di condividere. 

Poco dopo mi trovavo in Liguria, ospite a casa di Shunyo, Marco e Anando. Quando chiesi a Shunyo cosa sentisse rispetto al mio desiderio di lavorare con le persone, lei mi disse di andare nel mondo, di occuparmi degli uomini d’affari e più in generale di chi potesse avere influenza sugli altri. 

E così ho fatto. 

Ma la spinta più grande verso la condivisione credo che risieda proprio nella mia vita, nella mia storia, perché è in ultima analisi un anelito a condividere ciò che mi ha permesso di riprendere in mano il mio destino. Ad aprile un’importante casa editrice pubblicherà il mio primo libro (titolo provvisorio Crea la vita che ami) e mi sento tanto onorato quanto imbarazzato, perché non è mai scontato parlare di sé. Eppure, come disse un caro amico che mi ha accarezzato la vita, “Ogni vita andrebbe raccontata, perché ognuno ha diritto al rispetto e a un racconto”.

Nella mia vita ho conosciuto importanti formatori, leader carismatici, trainer e “psicoqualcosa”, alcuni anche intimamente. L’ultimo che ho ascoltato ha iniziato la sua carriera come campione nello sport più amato negli Stati Uniti e, via via, ha infilato un successo dopo l’altro fino a diventare top-manager di due delle multinazionali più importanti del mondo e poi un formatore acclamato. Un’esistenza folgorante, luminosa, una parabola ascendente di vittorie e soddisfazioni che sembra avvalorare la tesi che chi nasce in circostanze favorevoli è avvantaggiato. 

Per questo ho accolto la possibilità di raccontare un po’ di me, perché nel mio percorso non ci sono collezioni di vittorie da esporre come trofei. Anzi l’opposto. È stato un cammino faticoso, come per la maggior parte degli esseri umani che sentono che c’è qualcosa di più per cui alzarsi al mattino che non il mero sopravvivere, ma che non hanno ancora trovato il bandolo della matassa. È stato il viaggio di un individuo che cercava di dare un senso alle cose della vita, che voleva comprendere se avesse il diritto a un’esistenza autenticamente felice, a emanciparsi da un mondo che gli stava stretto, da un percorso che sembrava predestinato. 

La mia vita è iniziata con tante limitazioni, umiliazioni e ostacoli. 

Sono stato voluto a metà, nel senso che mia madre mi voleva, mio padre no. Se vediamo il bicchiere mezzo pieno, è un buon inizio. Un chimico, in realtà, direbbe che il bicchiere è pieno, ma di due elementi diversi. Appena uscito dal mio personale contenitore di acqua e sale mia madre disse qualcosa del tipo: “Hai visto che bello che è?”. Mio padre rispose repentino: “Sì, ma resta così?”. 

Non rimasi “così”, per fortuna. Però la vita fu davvero una giostra, una montagna russa, un turbinio, una vertigine. Le violenze in casa e mio padre che si giustificava con dei “Guarda cosa mi costringete a fare”. E poi la stessa storia per strada. Pestaggi, incidenti, ospedali, aggressioni. Facevo il difensore dei deboli comportandomi come i “forti”, nutrendo un meccanismo che cercavo di combattere. Poi la morte di molte delle persone che amavo e l’esperienza di quando a cadere nei meandri oscuri della vita è qualcuno a cui tengo. E sul fronte fisico avevo un disturbo alimentare che mi causava obesità e una diagnosi di predisposizione autoimmune per la quale i medici dissero che non si poteva fare nulla. 

Per anni sono state onde, quel “su e giù” in cui, a volte, tutti noi viviamo. I momenti “giù” riempirono le pagine della mia vita con una serie di quelle storie che “se non ti uccidono, ti fortificano”. E apparentemente sembra così. In realtà, ti “fortificano” nel senso che ti costruiscono attorno una fortezza, un guscio di protezione. Il problema è che queste protezioni non hanno un filtro, ma ti isolano da tutto, anche dall’amore e dalla bellezza. 

Avevo 10 anni quando mio padre fece un “salto”. Un momento di umiltà, se così si può chiamare. Era un professionista pieno di sé che guardava con sdegno le persone che cercavano una qualche guida, guru o dio. Era un nietzschiano da questo punto di vista, eppure qualcosa dentro di lui si stava risvegliando: la sensazione di potere fare ancora dei passi. Così fu attratto da un certo “guru” indiano… 

Con l’arrivo di Osho, e cioè di una guida illuminata, nella nostra vita, molte cose cambiarono repentinamente e, per un po’ di tempo, l’attenzione di mio padre si rivolse a quel nuovo viaggio. 

Era il periodo in cui Osho, nell’intento di trovare discepoli mossi da un vero anelito, “alzò il volume”: con il sannyas ti dava un nuovo nome, ti chiedeva di vestirti di arancione e di indossare, a vista, il mala. 

Mio padre lo prese alla lettera. Tornai un martedì all’ora di pranzo, appena uscito da scuola, e lo trovai intento a tingere tutto quello che trovava in casa...

Continua su Osho Times n. 233




DARPAN

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Per informazioni sul lavoro di Darpan: www.crealavitacheami.it

 




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