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L’impotenza della mente
Un vicolo cieco che può diventare un nuovo inizio!
Un prezioso brano di Osho apparso su Osho Times n. 242

Osho, mi trovo in un vicolo cieco. Vedo l’impotenza della mente e sento che ogni azione è inutile. La mente muore totalmente solo nel samadhi? Per favore parla della mente e dell’azione nell’essere testimoni.
Dici: “Mi trovo in un vicolo cieco”, ma non è quello che percepisco. Non ci sei ancora arrivato, perché quando davvero ti trovi in un vicolo cieco, la trasformazione accade immediatamente. Ti stai avvicinando, di questo sono certo. La strada senza uscita non è lontana, ma non ci sei ancora arrivato, la tua domanda lo dimostra. Ti stai avvicinando, intuitivamente avverti che non è lontana, ma non l’hai ancora raggiunta. C’è ancora speranza. Nel profondo stai ancora sognando che non sia un vicolo cieco e da qui nasce la tua domanda.
Dici: “Vedo l’impotenza della mente”, ma non è vero, pensi solo di averla vista. Vedere e pensare sono due cose completamente diverse, ma possono essere facilmente confuse. “Pensare” può spacciarsi per “vedere”, ma non è l’impotenza della mente che stai vedendo, altrimenti questa domanda non sarebbe neanche sorta. Se la mente è davvero impotente, che domande può fare? Cosa può pensare? Si stacca semplicemente da te, appassisce.
Ma la sua ombra è su di te e questo è un buon segno. Il giorno in cui vedrai l’impotenza della mente non è lontano e a quel punto, all’improvviso, la trasformazione. A quel punto, senza preavviso, un’esperienza illuminante improvvisa. Tutte le domande e tutte le risposte scompaiono, perché quando la mente è vista – davvero vista – come impotente, cosa resta da chiedere e da scoprire? La mente evapora e basta. E a quel punto rimane solo la vita, la vita pura, non ostacolata, non distorta dalla mente.
E poi non dici più di percepire ogni azione come inutile. Se vedi l’impotenza della mente, la mente scompare, ma l’azione, per la prima volta, acquista un’incredibile bellezza. La questione della sua utilità non si pone affatto.
La vita in sé non ha alcuna utilità. A cosa serve una rosa? Eppure continua a crescere, a sbocciare, a rilasciare il suo profumo... A cosa serve? A cosa serve il Sole che sorge ogni giorno? Serve a qualcosa il Sole in se stesso? A cosa serve la notte stellata?
“Essere utile”, “servire” fanno parte della struttura mentale. La mente pensa sempre in termini di utilità, di uno scopo, di un profitto. Ma quando la mente scompare, non scompare l’azione. Ciò che scompare è l’attività. E tra le due c’è una grossa differenza.
L’attività è utile, ma l’azione è pura gioia, pura bellezza. Non agisci perché c’è uno scopo da raggiungere, ma perché l’azione è una danza, è un canto. Agisci perché sei straripante di energia. Hai mai osservato un bambino che corre sulla spiaggia? Chiedigli: “Perché corri? A che scopo? Cosa ne ricavi?”. Hai mai osservato un bambino che raccoglie le conchiglie sulla spiaggia? Prova a chiedergli: “A cosa ti servono? Puoi usare meglio il tuo tempo, perché sprecarlo in questo modo?”.
Il bambino non si preoccupa affatto dell’utilità, si gode la sua energia. È così pieno di energia, così frizzante di energia che diventa una pura danza e qualsiasi pretesto va bene. Sono tutti pretesti: conchiglie, sassolini, pietre colorate. Sono solo pretesti: il Sole, la spiaggia bellissima... Sono solo dei pretesti per correre, saltare e gridare di gioia. Non servono a nulla.
“L’energia è delizia” è un’affermazione di William Blake, uno dei poeti più mistici dell’Occidente. L’energia è delizia. Quando c’è una grande quantità di energia, cosa ne fai? Non può che esplodere.
L’azione scaturisce dall’energia, dalla delizia. L’attività è efficienza, l’azione è poesia. L’attività crea un vincolo, perché mira a un risultato: non agisci per il gusto di agire, ma in vista di un obiettivo. C’è uno scopo. E poi subentra la frustrazione. Il novantanove per cento delle volte non raggiungi l’obiettivo, quindi ti ritrovi in preda all’infelicità, alla frustrazione. Non hai provato piacere nell’attività in sé, perché eri in attesa del risultato. E poi il risultato arriva e novantanove volte su cento è frustrante. E non sperare nel restante un per cento, perché la frustrazione arriva anche quando raggiungi l’obiettivo. Hai raggiunto l’obiettivo, ma all’improvviso ti rendi conto che tutti i sogni che ci avevi costruito sopra non si sono avverati. Hai i soldi che volevi, ma dov’è la gioia che avevi sperato? Sei riuscito a comprare un palazzo grandioso, ma tu sei sempre lo stesso poveraccio, con lo stesso vuoto e la stessa vacuità dentro di te. Prima vivevi in una capanna e ora vivi in un palazzo, ma tu sei la stessa persona. Eri infelice nella capanna e nel palazzo sei ancora più infelice, perché hai più spazio e con maggiore spazio a disposizione ovviamente sei più infelice. Che altro puoi fare con tutto quello spazio? Non sai fare altro che essere infelice.
E se osservi la gente, povera o ricca che sia, la sola differenza è che i poveri vivono ancora nella speranza, per questo non sono così frustrati. Ma i ricchi hanno perso ogni speranza e sono molto frustrati. I poveri possono ancora sognare, possono ancora fantasticare su quanto crescerà il loro conto in banca il prossimo anno, o quello dopo ancora. O sul giorno in cui saranno ricchi e avranno una bella macchina, una bella casa, una bella moglie e manderanno i figli nelle scuole migliori. Ma cosa può sognare un ricco? Tutto ciò che può sognare lo possiede già e non ne ha ricavato nulla. Ha i soldi, ma dentro è più vuoto che mai.
Esistono due tipologie di poveri: i poveri poveri e i poveri ricchi. E ricorda: la seconda categoria è di gran lunga la peggiore.
L’“attività” implica un obiettivo, è solo un mezzo per raggiungere un fine. L’“azione” implica che il mezzo e il fine arrivano insieme. Questa è la differenza tra azione e attività.
Quindi, l’attività diventerà inutile, ma a quel punto sorgerà l’azione e l’azione ha una dimensione totalmente diversa. Agisci per la pura gioia di agire.
Per esempio, io vi sto parlando: non è un’attività e quindi non mi preoccupo affatto del risultato. È un atto puro e semplice. Provo piacere nel comunicare con voi, provo piacere nell’entrare in comunione con voi. Vi sono grato perché me lo lasciate fare. Altrimenti dovrei parlare con gli alberi, con le pietre, o addirittura con me stesso! Sono in debito con voi, ma voi non dovete esserlo con me. È un atto puro e semplice. Non c’è alcun obiettivo, non mi aspetto nulla da voi. Se qualcosa accade, bene. Se non accade nulla, ancora meglio! Se vi illuminate, bene. Se non vi illuminate, grandioso! Perché se vi illuminate tutti, io con chi parlo?
Quindi per favore, rimandate l’illuminazione il più possibile, almeno questo piccolo favore me lo dovete! È un semplice atto. Non c’è uno scopo, non c’è un futuro, solo il presente.
Ne sussegue che non sto cercando di creare un sistema di pensiero, perché per creare un sistema di pensiero bisogna essere altamente motivati e poi collegare il tutto secondo un certo ordine logico. Ma io so godermi i frammenti…
Quando P.D. Ouspensky scrisse il suo primo libro su Gurdjieff lo intitolò In cerca del miracoloso. Era un uomo dall’inclinazione filosofica, un grande matematico, un logico, un filosofo. Quando mostrò il suo libro a Gurdjieff, che era il suo maestro, lui gli diede un’occhiata per qualche minuto e poi disse: “Metti anche un sottotitolo: Frammenti di un insegnamento”.
Ouspensky si stupì, perché aveva cercato di concepire un sistema organico e Gurdjieff gli stava dicendo di aggiungere un sottotitolo. Leggendo il titolo, In cerca del miracoloso, Gurdjieff aveva detto: “Va bene, ma c’è bisogno di un sottotitolo: Frammenti di un insegnamento, anzi, Frammenti di un insegnamento sconosciuto”. E Ouspensky aveva chiesto: “Perché?”. Al che Gurdjieff aveva risposto: “Perché non posso creare un sistema di pensiero: questi sono tutti frammenti”.
E lo puoi applicare anche a ciò che succede qui. Puoi raccogliere tutti i miei pensieri, ma sono solo frammenti. Sono frammenti, ma non un sistema. Per creare un sistema bisogna avere un obiettivo da raggiungere, seguire una certa struttura e procedere come una freccia lanciata verso il bersaglio. Ma questo non è possibile né per un uomo come me né per un uomo come Gurdjieff. Non possiamo perseguire un obiettivo. Ogni nostro atto è completo in sé, è compiuto in sé. Non ha alcuna relazione con il passato e non ha alcuna relazione con il futuro. È totale. Se morissi in questo preciso istante non avrei nemmeno il desiderio di completare la frase. L’azione è fine a se stessa e non ha alcuna utilità.
Quando percepisci che la mente è impotente, la mente scompare. Nell’atto stesso di accorgertene, la mente scompare...
Tratto da: Osho, Come, Come, Yet Again Come #1
Continua su Osho Times n. 242
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