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Parole
dal silenzio

 

Cosa spinge un maestro illuminato
a tornare a comunicare,
e condividere la sua esperienza...

Preziosi testi di Osho apparsi su Osho Times n. 205

 


Amato maestro,
qual è il linguaggio dell’illuminazione?

Non esiste un linguaggio dell’illuminazione. Non può esistere data la natura stessa del fenomeno. L’illuminazione accade oltre la mente, mentre il linguaggio fa parte della mente. L’illuminazione viene vissuta in totale silenzio.
Se possiamo definire il silenzio un linguaggio, allora l’illuminazione, certo, ne possiede uno suo... fatto di silenzio, di beatitudine, di estasi, di innocenza. Però non è il comune significato di linguaggio che normalmente indiica l’uso delle parole per comunicare. Il silenzio però non può essere trasmesso a parole, così come non possono esserlo l’estasi, l’amore o la beatitudine. L’illuminazione è un fenomeno che si può vedere, che si può sentire, ma che non può essere udito o spiegato a parole.
Vi ho già raccontato questa storia...
Quando il Buddha s’illuminò rimase in silenzio per sette giorni durante i quali l’esistenza rimase col fiato sospeso in attesa di ascoltarlo, di sentire la sua musica, la sua canzone silente, le sue parole provenienti dal trascendente, parole di verità... l’intera esistenza era in attesa. Quei sette giorni sembrarono lunghi come sette secoli.
Questa storia è estremamente bella. Fino a un certo punto è basata su fatti, oltre quel punto diventa mitologica, ma  questo non significa che sia una bugia. Ci sono alcune verità che possono essere espresse solo attraverso il mito. Il Buddha raggiunse l’illuminazione, questa è una verità; rimase in silenzio per sette giorni, questa è una verità. Anche che l’esistenza intera rimase in attesa di ascoltarlo è una verità, ma non per tutti: solo per coloro i quali avevano già vissuto qualcosa dell’illuminazione e che avevano fatto esperienza dell’esistenza in attesa.
Comunque è comprensibile a tutti che l’esistenza gioisca ogni qual volta qualcuno raggiunga l’illuminazione poiché è una parte di essa che raggiunge la più alta espressione, che di­venta una vetta dell’Everest, il picco più alto. È naturalmente la gloria suprema dell’esistenza, è l’anelito in­trinseco del Tutto: illuminarsi, disperdere tutta l’inconsapevolezza e inondare l’intera esistenza di luce e consapevolezza… distruggere tutta la sofferenza e portare nel mondo quanti più fiori di gioia possibili.
Oltre questo punto la storia diventa puro mito, pur conservando il suo significato e il suo senso di verità.
Gli dèi in cielo si preoccuparono.
Bisogna capire una cosa: il buddhismo non crede nella presenza di un dio, co­me neppure il giainismo; entrambe le religioni credono negli dèi. Concettual­mente sono molto più democratiche dell’islamismo, dell’ebraismo o del cristianesimo, che sono religioni più fasciste: un dio, una religione, una sacra scrittura, un profeta... sono molto monopolistiche. Invece il buddhismo ha un approccio completamente diverso: considera milioni di dèi.
Anzi, ogni essere vivente al mondo è destinato a diventare un dio un giorno: quando raggiungerà l’illuminazione sarà un dio. Non esiste un creatore in quanto tale; l’idea di per sé è brutta. Se dio ti ha creato sei soltanto un burattino, non hai una tua individualità, i tuoi fili sono nelle mani del burattinaio. Inoltre se dio può crearti può fare il contrario in qualsiasi momento. Così come non ti ha interpellato per crearti, non verrà a chiederti nulla quando vorrà distruggerti. Sei solo vittima di un dio capriccioso, tirannico e fascista.
Secondo il buddhismo non esiste un dio creatore e questo concetto conferisce dignità a ogni essere vivente. Non sei un burattino, possiedi una tua individualità, una tua libertà e un tuo orgoglio. Nessuno può crearti, nessuno può distruggerti; da questo deriva un concetto ulteriore: nessuno può salvarti... fuorché te stesso! Nel cristianesimo e nell’ebraismo esiste il concetto di salvatore: se c’è un dio può inviare i suoi messaggeri, i suoi profeti e i suoi messia a salvarti. Perfino la tua liberazione non è nelle tue mani. Anch’essa sarà una sorta di schiavitù: è qualcun altro a liberarti. E una liberazione che ti viene data da qualcun altro non ha molto valore.
La libertà va ottenuta, non va mendicata. La libertà va afferrata, non servono preghiere per averla. Una libertà che ti viene data come un dono di compassione non ha molto valore. Per questo nel buddhismo non esiste la figura del salvatore, però esistono gli dèi, cioè coloro che si sono già illuminati.
Dal momento che non c’è il momento della creazione, l’esistenza è eterna: non ha mai avuto inizio né mai avrà fine. Questo va compreso. Il cristianesimo sostiene che dio creò il mondo esattamente quattromilaquattro anni prima della nascita di Cristo. E per una logica molto semplice ogni cosa che ha un inizio è destinata ad avere una fine un giorno. Non si può avere solo un inizio senza avere una fine; per quanto lontana sia, dovrà arrivare perché c’è stato un inizio. Pertanto nelle religioni che contemplano un dio creatore l’esistenza non può godere delle gioie dell’eternità, dell’immortalità, di una durata senza tempo e oltre la morte.
Nel corso dell’eternità milioni di persone devono essersi illuminate: sono tutte diventate degli dèi.
Sono le stesse che rimasero in trepidazione dopo i sette giorni di silenzio trascorsi dall’illuminazione del Buddha... succede così raramente che un essere umano si illumini. È un fenomeno talmente raro e unico che l’anima stessa dell’esistenza rimane in attesa, nell’anelito che succeda; passano migliaia di anni e poi qualcuno si illumina.
E se il Buddha non avesse parlato, se avesse scelto di rimanere in silenzio… eventualità del tutto naturale perché il silenzio è l’unico linguaggio giusto dell’illuminazione. Nel momento in cui si cerca di calarla in un linguaggio la si distorce.
La distorsione avviene su molti piani.
Prima di tutto avviene nel momento in cui, dalle sue altezze, dai suoi picchi, si trascina l’illuminazione giù nelle valli buie della mente. Il primo stravolgimento accade lì. Quasi il novanta percento della sua realtà va perso.
Poi arriva la parola. La seconda distorsione accade perché ciò che puoi concepire nel più profondo del tuo cuore è una cosa; farlo emergere per esprimerlo sotto forma di parole è tutt’altra. È come quando si prova un grande amore per qualcuno: nel momento in cui si dice “ti amo” ci si rende subito conto che la parola “amore” è troppo piccola per esprimere ciò che si sente: è veramente  imbarazzante usarla.
La terza distorsione accade quando le parole vengono udite da qualcun al­tro, poiché questi le ascolterà attraverso le proprie idee, il proprio condizionamento,  i propri pensieri, opinioni, filosofie, ideologie, pregiudizi; l’altro le interpreterà immediatamente a modo suo. Nel momento in cui arriva all’altra persona, ciò che ebbe origine dalla vetta più alta della tua consapevolezza, non è più la stessa cosa; ha subito così tanti cambiamenti che  è qualcosa di totalmente diverso.
Per questo nel corso dei secoli molti illuminati non hanno mai parlato. Su cento illuminati forse uno solo ha scelto di parlare.
Il Buddha era un essere umano così raro, così colto, così capace di esprimersi che se avesse deciso di rimanere in silenzio il mondo avrebbe perso una grossa opportunità.
Gli dèi scesero sulla Terra, toccarono i piedi del Buddha e gli chiesero di parlare: “L’esistenza intera sta aspettando. Gli alberi stanno aspettando, le montagne stanno aspettando, le valli stanno aspettando, le nuvole e le stelle stanno aspettando. Non deluderli, non essere tanto scortese, abbi un po’ di pietà e parla”.
Il Buddha dal suo canto aveva le sue ragioni. Disse: “Posso comprendere la vostra compassione e vorrei poter parlare. Per sette giorni ho vacillato tra il parlare e il non parlare e ogni ragione mi porta a non farlo. Non sono riuscito a trovare un solo argomento a favore. Verrò frainteso, quindi che senso ha parlare se verrò frainteso? Ed è sicuro che succederà. Sarò condannato e nessuno ascolterà le mie parole come vanno ascoltate le parole di un  illuminato. Ascoltare richiede un certo allenamento, una certa disciplina, non è solo udire. E anche se ci fosse qualcuno capace di comprendermi, in pratica non farebbe nulla di diverso dal solito: ogni passo è pericoloso, è come camminare sul filo del rasoio. Io non sono contrario al parlare. Solo non servirebbe a niente e ogni argomento mi porta a non farlo”.
Gli dèi si guardarono tra loro. Quello che il Buddha diceva era giusto. Si appartarono per decidere il da farsi: “Non possiamo affermare che quello che dice sia sbagliato, eppure vorremmo che parlasse. Bisogna trovare il modo di convincerlo”.
Discussero a lungo e alla fine giunsero a una conclusione.
Tornarono dal Buddha e dissero: “Ab­biamo trovato solo un unico, piccolo argomento. È molto piccolo a confronto di tutte le ragioni contrarie al parlare, eppure vorremmo che lo considerassi. Il nostro argomento è che, sì, potresti essere frainteso dal novantanove percento delle persone, ma non puoi dire che sarai frainteso dal cento percento. Devi concedere almeno un piccolo margine: l’uno percento. E quest’uno percento non è poco in questo vasto universo; l’uno percento è un gruppo di persone abbastanza grande. E magari di quest’uno percento solo molto pochi  saranno in grado di seguire il cammino. Ma se in tutto l’universo anche solo una persona si illuminasse grazie alle tue parole, ne sarebbe valsa la pena. L’illuminazione è un’esperienza così grandiosa che perfino se tutto lo sforzo di una vita rendesse anche una sola persona illuminata, sarebbe per te un gran successo. Chiedere di più non è giusto, ma una persona sarebbe già più che abbastanza. E ci sono alcuni – dovresti esserne consapevole come lo siamo noi – che sono proprio sulla soglia. Una piccola spinta, un piccolo incoraggiamento, una lieve speranza e potrebbero oltrepassare il confine dell’ignoranza e della schiavitù, potrebbero  uscire dalla loro prigione. Devi parlare”.
Il Buddha chiuse gli occhi, si mise a pensare per alcuni istanti, poi disse: “Non posso negare questa possibilità. Non è grande, ma capisco che tutte le mie ragioni, per quanto importanti, siano piccole al cospetto della compassione. Vivrò almeno quarantadue anni e se posso rendere illuminato anche un solo individuo mi sentirò immensamente ricompensato. Parle­rò. Potete andarvene sollevati dalle vostre apprensioni.”
E per quarantadue anni Buddha par­lò. E di sicuro non fu solo una persona, ma furono circa due dozzine le persone che si illuminarono. Ma queste due dozzine erano persone che avevano appreso l’arte dell’ascolto, l’arte di essere in silenzio. Non si illuminarono per via di ciò che il Buddha diceva, ma perché erano in grado di percepire ciò che era: la sua presenza, la sua aura, il suo silenzio, la sua profondità, la sua altezza.
Quel gruppo di persone non s’illuminò solo ascoltando le parole del Buddha. Certo le parole furono d’aiuto: le aiutarono a stare alla presenza del Buddha, a capire la bellezza che le parole comuni acquisiscono quando vengono usate da una persona illuminata. Gesti ordinari divengono così aggraziati... occhi ordinari diventano così belli, con tale profondità  e significato. Già solo il modo di camminare di un Buddha ha una qualità diversa, il modo in cui dorme assume tutt’altro valore. Queste erano le persone che cercarono di capire non tanto ciò che il Buddha diceva, ma ciò che traspirava dal suo essere.
Il suo essere era l’unico linguaggio autentico. E tuttavia milioni di persone udirono ciò che disse e divennero “istruite”: il giorno in cui il Buddha morì, in quello stesso giorno, sorsero trentadue scuole, trentadue fazioni tra i suoi discepoli, tanto erano diverse le interpretazioni di ciò che aveva detto. Fecero ogni sforzo possibile per riunirsi e redigere insieme la summa dei suoi insegnamenti, ma fallirono ogni volta. Ne esistono trentadue versioni e sono così diverse tra loro che è difficile credere che tante persone possano ascoltarne un’altra in tanti modi diversi.
Perfino oggigiorno queste trentadue scuole continuano a dibattere tra loro. In venticinque secoli non sono riuscite ad appianare le loro divergenze. Al contrario, si sono distanziate le une dalle altre sempre di più. Adesso sono filosofie indipendenti, ognuna delle quali afferma: “Questo è ciò che il Buddha ha detto e tutti gli altri sbagliano. Questa è la sacra scrittura. Le altre sono solo raccolte fatte da persone che non avevano capito”.
Quella che hai sollevato è una delle questioni più grandi: “Qual è il linguaggio dell’illuminazione?”. L’essere stesso della persona illuminata è il suo linguaggio. Trovarsi a contatto con lei, lasciar cadere tutte le difese, aprire le porte del cuore, permettere al suo amore di raggiungerti, permettere al suo battito di diventare il tuo battito.
Lentamente, se si è pronti, senza paura, il cuore del discepolo inizia a danzare allo stesso ritmo del maestro. Qualcosa è stato trasmesso, ma non è accessibile alla vista. Qualcosa è successo: qualcosa che non è stato detto è stato udito. Qualcosa che non è possibile esprimere a parole è stato trasmesso attraverso il silenzio, semplicemente guardandosi negli occhi, o tenendosi per mano, o sedendo l’uno accanto all’altro in silenzio.
Però un linguaggio così… non esiste.
Il linguaggio è uno strumento molto fragile, però funziona finché si tratta della vita di tutti giorni. È uno strumento utile, ma nel momento in cui cominci ad addentrarti nell’ambito dell’esistenza non utilitaristica, la sua funzionalità comincia a venir meno. Per esempio nella poesia il linguaggio non è così chiaro come nella prosa. La prosa è semplice da capire mentre la poesia richiede interpretazione e le interpretazioni possono essere molte.
La poesia ha una sua bellezza, ma è anche vaga. È difficile afferrarla, di­venta sempre più sfuggente. Quanto più è elevata tanto più è inafferrabile. Puoi avvertire qualcosa, ma non sai definire esattamente cosa o dove sia.
E un poeta non è in grado di andare oltre la mente. Questa è la differenza tra un poeta e un mistico: il mistico può andare oltre la mente; al poeta può capitare talvolta di trovarsi al di là della mente, ma per caso, non perché lo desideri. Ogni tanto gli capita, ma non volontariamente. Quando gli succede ne attinge a piene mani, diventa il più possibile stracolmo di quella bellezza, del significato, di quella gioia... e li riversa nella poesia. Però è al di là del suo potere. Non è capace di aprire le porte dell’aldilà quando lo desidera; quella brezza viene quando vuole lei.
Se questa è la situazione del poeta, allora puoi comprendere quella del mistico. Il poeta si inoltra appena qualche passo oltre la mente, mentre il mistico ha trasceso la mente per sempre. Vive oltre la mente e non ci ritorna più. Non può esprimere la sua illuminazione con nessun linguaggio. Anche quando par­la, il suo parlare diventa uno stratagemma per attirare i ricercatori: così che possano percepire il suo essere, la sua presenza, per travolgerli con la sua fragranza; usa il linguaggio solo come una trappola, perché tu sei in grado di capire soltanto quello.
Ma quando cominci a innamorarti di qualcuno, benché all’inizio siano solo il suo linguaggio, la sua poesia, le sue affermazioni aggraziate, le sue parole misteriose… piano piano ti avvicini sempre di più. Le parole vengono di­menticate e la persona diventa sempre più importante, la sua presenza si fa sempre più tangibile. Riesci quasi a toccarla. Il suo silenzio comincia lentamente a raggiungerti creando una comunione, non una comunicazione.
C’è la storia di un mistico sufi, Jalaluddin Rumi, il mistico più amato dai Sufi. È l’unico a essere chiamato Mevlana, maestro dei maestri. E lo fu senz’altro.
Una carovana di passaggio nel deserto si trovò nei pressi del castello dove Jalaluddin Rumi aveva una scuola, mèta di molti ricercatori del Medio Oriente che venivano per vederlo.
I viandanti della carovana pensarono: “È un buon posto per riposarsi stanotte, noi e i nostri cammelli siamo stanchi. Per di più sarà l’occasione di vedere, anche solo per curiosità, cosa succede attorno a questo folle, Jalaluddin Rumi, che attrae queste strane persone da paesi lontani. E noi non riusciamo a vederne il senso: a noi sembra un po’ pazzo, eppure lo chiamano il maestro dei maestri”.
Quindi, per curiosità, fermarono la carovana sotto gli alberi e si recarono nel castello per vedere che succedeva.
Jalaluddin stava insegnando e i suoi insegnamenti erano pura poesia: cantava una canzone. I viandanti udirono i suoi canti e a loro sembravano le parole di un folle: incoerenti, sconnesse. Parole bellissime, ma senza alcun significato… frasi strane. Ci si sentiva bene ad ascoltarle, ma poi, ripensandoci in un secondo tempo, non rimaneva niente, si restava a mani vuote.
L’indomani mattina se ne andarono. Ma sulla via del ritorno si fermarono di nuovo, spinti ancora dalla curiosità: “Che succede ora?”. Jalaluddin era seduto a occhi chiusi e i suoi discepoli erano seduti a occhi chiusi insieme a lui. Nessuno parlava e non c’era nulla da ascoltare.
Dissero tra loro: “Di male in peggio. L’ultima volta almeno quel folle diceva cose che sembravano bellissime anche se senza senso. Adesso però sta seduto a occhi chiusi e tutti questi idioti con lui. Non c’è niente qui per noi”. Così se ne andarono.
Al loro secondo viaggio passarono di nuovo nei pressi del castello e di nuovo si fermarono per vedere quanto oltre si fosse spinta la follia. Trovarono Jalaluddin Rumi seduto da solo, senza nessun altro.
I viandanti si dissero: “Dunque tutti quegli idioti se ne sono andati. Strano. Strano evolversi dei suoi discepoli. Dove saranno spariti? Lo hanno la­sciato tutti”.
Visto che non c’era nessuno, presero coraggio, si avvicinarono a Jalaluddin e gli chiesero: “Non è cortese disturbarti, ma non resistiamo alla tentazione di chiederti dove sono finiti i tuoi discepoli”.
Jalaluddin guardò l’uomo che aveva posto la domanda e la piccola folla dietro di lui, l’intera carovana. Disse: “Vi ho osservato. La prima volta che vi siete fermati stavo parlando ai miei discepoli giusto per prepararli, affinché fossero pronti a sedere con me in silenzio. La volta seguente che siete passati, erano maturi abbastanza da sedere con me in silenzio. Questa volta siete arrivati quando sono tutti ripartiti per diffondere il mio messaggio. Sono giunti a maturazione, hanno raggiunto lo spazio che stavano ricercando. Ora se ne sono andati alla ricerca di altri pazzi come loro. Quando arriveranno i nuovi dovrò ricominciare daccapo. Parlerò e quando saranno pronti per godersi la mia presenza in silenzio, siederò con loro in silenzio. E quando saranno così vicini che il mio cuore e il loro sarà diventato tutt’uno, allora li manderò a cercare altri pazzi come loro che hanno bisogno di me”.
L’illuminazione non ha linguaggio, ma trova i modi, anche senza linguaggio, per trasmettere il messaggio essenziale. Perfino il linguaggio può essere usato come strumento, ma non per comunicare la verità vissuta. Quella comunicazione avverrà solo in una comunione.
L’illuminazione non ha linguaggio, però è in grado di trovare modi per trasmettere la sua gioia, la sua beatitudine, la sua verità, il suo amore, la sua compassione… tutto ciò che è grandioso nell’esperienza umana: i picchi più alti della consapevolezza.

Tratto da: Osho, The New Dawn #17


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