Il punto di svolta

 

Il punto di svolta

Ageh Bharti ricorda una particolare esperienza interiore che lo portò a voler incontrare Osho

Un articolo apparso su Osho Times n. 255

 

Osho anni 60


Sebbene la vita sia un processo in costante divenire, ci sono dei momenti in cui si può dire di trovarsi a un punto di svolta. Ecco qui di seguito il racconto di un evento apparentemente insignificante che ha rappresentato un punto di svolta nella mia vita.
Ai primi di dicembre del 1966, in tarda mattinata, mi trovavo nella sala d’aspetto nella clinica del mio amico dott. K.P. Pandey insieme a un parente, Bhagwan Singh. Il dottor Pandey era impegnato con i suoi pazienti. Ci era stato detto che si sarebbe liberato in una ventina di minuti.
Mentre aspettavo, guardai fuori dalla finestra e vidi due passeri saltellare sul­la strada. Erano così belli! Rimasi affascinato. Poi mi venne un pensiero: se i passeri, le cui ali sono di un colore un po’ spento, appaiono così belli, quanto potranno essere belli degli uccelli “veramente” belli?! Subito dopo mi arrivò il pensiero che sarebbe stata una cosa fantastica collezionare una coppia di tutte le razze di uccelli più belli del mondo, all’interno di gabbie, in una stanza! Avrei potuto divertirmi a guardare le bellissime ali di un uccello, i salti di un altro e ad ascoltare il cinguettio musicale di un altro ancora.
Subito dopo, arrivò il pensiero che avrei avuto bisogno di una stanza molto larga e lunga, e la vidi, proprio lì davanti a me. La porta era chiusa, ma io avevo la chiave. Mentre aprivo la porta, vidi la prima gabbia con un bellissimo uccello e mi bloccai. Qualcuno stava dicendo: “Tu non sei così. Tu sei un amante della libertà. Come puoi restare a guardare degli uccelli in gabbia? Dopo dieci minuti a vederli così, prigionieri, saresti talmente stressato e addolorato che potresti impazzire. I passeri erano belli perché erano liberi! Volteggiavano in libertà!”.
Nell’udire quelle parole, mi venne voglia di aprire le porte di tutte le gabbie e lasciare che gli uccelli uscissero per volare liberamente nel cielo. E il solo averlo pensato, mi fece accorgere che gli uccelli e la grande stanza erano completamente scomparsi. Poi mi sorse una domanda: chi c’è dentro di me, che arriva sempre, come un buon amico, a guidarmi sulla retta via? Ricordai chiaramente che non era certo la prima volta che quell’amico arrivava. Il primo pensiero era sempre mio, ma dopo poco, questo amico benevolo arrivava a guidarmi nella giusta direzione.
Quel giorno, la domanda su chi fosse questo amico, mi attraversò direttamente il cuore. Raccontati l’accaduto a Bhagwan Singh e gli chiesi: “Chi è questo alter ego così benevolo?”. E lui mi disse: “Non ci pensare. Era solo un pensiero che se n’è andato così come era arrivato”. Bhagwan Singh era un bravo ragazzo, era persino laureato, ma quel giorno per la prima volta lo sgridai dandogli dell’idiota! Dissi: “Sei un idiota! Questa è stata la più grande ispirazione della mia vita e tu dici che non è niente!”.
Provai un forte desiderio di restare solo e in silenzio, quindi decisi di non aspettare il dottor Pandey e di andarmene. Mollai anche Bhagwan Singh, sebbene fosse venuto per accompagnare me.


Andai a casa e mi distesi sul letto. Ero assolutamente solo, cioè, ero con me stesso. Dopo un po’, Sambodhi mi chiamò per pranzare. Andai in sala da pranzo, mangiai e tornai nella mia stanza. Volevo semplicemente stare solo. E avevo notato che anche mentre parlavo con qualcuno la mia solitudine era presente. Dopo aver riposato per un po’, mi svegliai e mi ritrovai ancora in solitudine. La mente, che aveva vagato di qua e di là, si era completamente fermata.
Poco dopo iniziò a succedere qualcosa. Vidi una grande palla di colore rosso che ruotava molto lentamente. Migliaia di scintille balenavano tutto attorno e altre migliaia di scintille andavano nella direzione opposta. Mi sembrava che la grande palla fosse dio e che le scintille lampeggianti fossero anime uscenti, pronte a nascere, e che le scintille che lampeggiavano nell’altra direzione fossero anch’esse anime che rientravano, dopo aver viaggiato per il mondo. Poi capii che quando una persona dice di essere atea e non accetta l’esistenza di dio, persino in quel momento dio è in lei, lei stessa è dio.
Poi vidi che, da confini imperscrutabili, migliaia di energie si manifestavano sotto forma di razzi, vorticavano a una velocità incalcolabile per raggiungere un altro confine imperscrutabile. Partivano da una fine infinita per raggiungere altre fini infinite, tutto allo stesso tempo. Mi ricordò Arjuna che dice a Krishna che sta vedendo milioni di anime venire alla luce e contemporaneamente entrare nella bocca della morte. Forse parlava della stessa cosa.
E poi mi accorsi che non c’era terra né luna né stelle né montagne né fiumi. Solo l’espansione del vuoto infinito. Pensai che questa vastità vuota fosse dio. E mi ricordai che io ero lì, dentro questo vuoto. Capii che ero arrivato nel suo cuore. E ricordandomi il cuore, mi resi conto che dio era nel mio cuore. Ciò significava che solo dio è. Essere significa dio. Tutto ciò che esiste è dio. Tu, io, le stelle, la luna, il sole, il vento, l’erba, tutto è solo dio!


Da quel momento iniziai a vivere come dio. I desideri, la rabbia, l’ego, l’avidità sparirono tutti. Ero un’energia assoluta, pace assoluta, consapevolezza assoluta, beatitudine assoluta. C’era consapevolezza anche nel sonno. Anzi, “Io” non ero. Solo dio era. Poi compresi che tutto ciò che potevo sentire, tutto ciò che potevo vedere, tutto ciò che potevo toccare e sperimentare e anche tutto ciò che non riuscivo a sentire, che non potevo vedere e che è oltre la capacità tangibile, tutto è dio. Non c’è altro che dio. E così, iniziai a vivere una vita divina. Ogni gesto e ogni movimento diventarono gioia. Anche fare la doccia diventò un evento così bello da farmi venire le lacrime in estrema beatitudine. Tutto ciò che non scaturiva dal desiderio, che non era attaccato a nulla ed era un non-fare, diventò la mia vita normale.


Questo stato durò per due mesi. Poi, si affacciò la sensazione che qualcun altro dovesse confermare la mia condizione. Era il momento giusto di incontrare Osho, il 10 febbraio del 1967, nella sua residenza Yogesh Bhavan, a Jabalpur. 
Mi chiese che cosa mi avesse portato da lui. Gli raccontai la mia esperienza. Gli dissi anche: “Mi sono illuminato e voglio lasciare mia moglie e i miei figli per portare il mio messaggio di amore e pace in giro per il mondo. Comunque, non so quale pensiero mi abbia spinto a venire da te, quando sono uscito di casa”.
Osho rispose: “La mente ha molti stadi. Quello che è accaduto a te è lo stadio più alto. Devi avere compiuto qualche atto straordinario nelle tue vite passate, perché non è un avvenimento comune. È raro che accada, ma non è l’illuminazione. Può essere una porta verso l’illuminazione, ma non è l’illuminazione. Quando l’illuminazione accade, non c’è ricordo di quel che è successo, non resta nulla sotto forma di ricordo. La dualità di visto e vedente si annulla completamente. Anche la beatitudine non esiste in quello stato. Solo un vuoto, il nulla, rimane”. Così dicendo, Osho indicò un punto sotto al petto, proprio nel mezzo, poi continuò: “E a proposito del fatto di lasciare moglie e figli: non va bene. Non sono degli ostacoli. Lasciarli è solo un gesto egoistico. Chi è che li lascia e per andare dove? La benedizione che ti è capitata non è comune a molti. È una cosa rara. Quindi, assaporala dentro di te. Non condividerla con gli altri, perché non capirebbero. O, al contrario, penseranno che sei diventato matto e che stai dicendo cose senza senso. E anche il fatto che molte persone dicano che sei matto non va bene”.
Poi aggiunse: “E se senti di averne voglia, vieni a trovarmi, la porta è aperta”.
Porsi i miei omaggi e lasciai la casa di Osho col dovuto rispetto. Tornai a casa con l’esperienza della beatitudine eterna.
Come si fa a resistere alla tentazione di parlarne con le persone? Sono tutti tristi, alla disperata ricerca della felicità nella dimensione mondana… Lavorano tanto per fare soldi, con sudore e fatica, privando il loro corpo del dovuto riposo. 
E in ogni caso, nessuno avrebbe potuto veramente capire quello che descrivevo. Mano a mano che continuavo a parlare con le persone, la mia felicità calava. Ogni volta che parlavo con qualcuno di questo argomento (ovviamente, per amore e compassione), la mia felicità diminuiva. Il mio corpo provava un tremendo dolore, come se fosse stato investito da un camion.
Così, lentamente e gradualmente, raggiunsi una condizione di vuoto, in cui rimanevano solo i ricordi.
Di certo, questa esperienza aveva cambiato tutta la visione e il corso della mia vita. Ma la cosa più grandiosa che era accaduta, era che mi aveva dato la visione interiore per poter riconoscere Osho e il suo valore immenso.

 

 


​Apparso su Osho Times n. 255