Editoriale 152

Ho visto un film in cui un giovanissimo ribelle sfida il duro della classe dicendogli: “Supera la riga e vedi”, mentre traccia col piede, sulla terra battuta, una linea di demarcazione davanti a sé.
Naturalmente il duro non ha nessun problema a superare la riga, anzi accetta la sfida come un invito a nozze! E giù botte…
E in effetti che razza di barriera è una riga tracciata per terra?

Forse lo diamo per scontato, ma camminando per strada, a piedi o con un mezzo, i nostri spostamenti sono spesso davvero gestiti e diretti da tante… righe per terra. E la nostra stessa sopravvivenza può dipendere da dove ci collochiamo rispetto ad esse.

Oggi al telegiornale il resoconto di un incidente pauroso: al mattino presto, su una strada deserta a doppia linea continua – teoricamente una barriera invalicabile – due auto si sono scontrate frontalmente a oltre 100 km all’ora.
Spesso non ci rendiamo conto di cosa “ci scorre” a lato quando siamo in auto, ma basta davvero poco – ad esempio superare la linea bianca centrale – e può succedere di tutto. 
Per fortuna capita solo di rado. Il classico colpo di sonno. O cercando di evitare una lepre che attraversa la strada. O altre cose simili. A me in 40 anni di guida non è mai successo! 
Quella linea bianca ha una sua autorità intrinseca, spesso percepita in modo automatico.
 

Cerchio per terra


​Nel suo bellissimo “Incontri con uomini straordinari”, Gurdjieff racconta di un’antica tribù che viveva vicino a lui quando era piccolo. La tribù aveva un rapporto magico e molto forte con le linee tracciate per terra. Se si riusciva a tracciare un cerchio chiuso intorno a una persona, questa era letteralmente prigioniera. Non riusciva a uscire dal cerchio. E non era solo un pensiero, era un muro vero e proprio. Tanto che se la persona “prigioniera” era trascinata con la forza fuori dal cerchio, lo shock era così forte che perdeva i sensi.
Le linee tracciate all’esterno sono facili da individuare, ma cosa dire delle linee che tracciamo dentro di noi? Quelle sono spesso invisibili.

Quando arrivai a Pune da Osho, negli anni ’70, alcune delle parole d’ordine erano “lasciarsi andare”, “dire di sì”, “togliere i no e le resistenze”, “andare oltre i limiti”, eccetera. E noi scoprivamo di essere pieni di confini interiori invalicabili, difesi da inconsci soldatini, cresciuti sotto i diktat di una società repressiva e in controllo. Tutti quei “no” bloccavano il flusso: scoprivamo di non sapere amare, ci sorprendevamo a litigare, dentro di noi, col Maestro, ci accorgevamo di non lasciare avvicinare le persone più di tanto, di non esporci mai veramente, eccetera. E non perché non lo volessimo, anzi lo desideravamo con tutto il nostro essere! Ma c’erano delle linee invisibili interiori che ce lo impedivano, linee da vedere con chiarezza e poi superare con l’aiuto di ciò che avevamo a disposizione: le meditazioni, le terapie, gli amici e gli amanti, le parole di Osho e i suoi darshan. Piano piano le linee sparivano e ci ritrovavamo a volare leggeri e liberi. 
E sembrava di avercela fatta…

​Ero di nuovo a Pune, nel 1988. Era da un po’ iniziata la serie di discorsi Yahoo the Mystic Rose e al discorso n. 6 mi trovai magicamente seduto molto avanti, vicinissimo a Osho. Lo vedevo davvero bene e lui chiaramente vedeva me… mi guardava dritto negli occhi.
La prima domanda iniziò così: “Amato Osho, di recente hai concluso un discorso dicendo: ‘Lasciati andare sono le parole più importanti in tutta l’esistenza’. Mi è entrato dentro come una freccia. Da quel momento le tue parole mi perseguitano. Amato Maestro, puoi per favore parlare ancora un po’ dell’arte di lasciarsi andare? Sembra la cosa più facile e la più difficile al tempo stesso”. 

Dopo circa mezz’ora di preziose ed esilaranti parole, la risposta di Osho arrivò per tutti esperienziale.
In un crescendo di risate, barzellette, battute argute, altre risate incontenibili e la promessa/minaccia “tra un po’ saprai cosa vuol dire lasciarsi andare” io mi sentivo scoppiare. Morivo dal ridere e non pensavo di essere teso, ma più aumentavano le risate e più mi accorgevo di essere come contenuto da un invisibile involucro rigido. Come se fossi spiaccicato contro delle pareti di vetro che non avevo mai pensato di avere intorno e che mi bloccavano.
Poi Osho finalmente disse: “Non so cosa dire! Facciamo un esercizio?” e così nacquero il gibberish e il let-go, la meditazione guidata, alla fine di tutti i suoi discorsi da quel momento in poi.
Tutti ormai in lacrime dalle incontenibili risate, al segnale stabilito ci lasciammo andare a terra di botto, come dei sacchi di patate, a peso morto, continuando a ridere… Le pareti di vetro che mi contenevano si dissolsero in una risata che arrivava da chissà quale profondità…Che leggerezza, che libertà sconfinata. Un altro strato di corazza era caduto magicamente.
Quando mi alzai Osho era lì che ridacchiava e mi guardava dritto negli occhi con un sorriso del tipo: “Visto com’era facile?”. 

​Ma naturalmente non era il mio ultimo confine da superare, ce ne sarebbero stati altri… 
Lì però ho capito che siamo autolimitati, strato su strato, da invisibili linee aldilà della nostra volontà. E che se vogliamo avventurarci sempre più in là, su terreni misteriosi e magici, dobbiamo superarle.

Ma oggi, senza un Maestro che ti guarda negli occhi, come si fa?
L’altra cosa che ho capito è che la barriera non l'ha dissolta Osho, ma il mio lasciarmi andare al momento giusto. Osho ha solo creato un livello di energia sufficientemente alto perché saltasse al livello dopo, spontaneamente.
Quindi il trucco è sempre lo stesso: creare un campo di energia abbastanza alta dove i fiori sbocciano spontaneamente.
Un campo così c’è appena stato a Bellaria, con l’Oshofestival, il prossimo sarà a Salsomaggiore, con Meditando! È tempo di prenotare…

Ciao,
Akarmo​