L‘ombra della sua assistente

Sul sedile del passeggero

Indradhanu racconta alcuni momenti con Osho al Ranch in America...  

Una condivisione apparsa su Osho Times n 259

 

La casa di Osho al Ranch
 

Al Ranch vissi a lungo nella residenza di Osho, Lao Tzu House, e poiché ero la governante, ero in casa giorno e notte. Quindi, oltre ai miei doveri occasionali come radiologa, ero anche stata addestrata a sostituire Vivek e Chetana (Shunyo, N.d.R.), che si prendevano cura di Osho, nel caso in cui nessuna delle due fosse disponibile. Per imparare la routine, passai un giorno intero a fare l’ombra di Vivek mentre svolgeva i suoi compiti quotidiani. 

Dovemmo alzarci, farci la doccia ed essere pronte per svegliarlo, alle sei, con un tè al latte servito in una tazza di porcellana cinese a fiori con un coperchietto. 

Dormiva quando arrivammo e Vivek disse che non serviva chiamarlo per svegliarlo: “Devi scuotergli la spalla”, cosa che fece molto energicamente. 

Il mio primo pensiero fu: “Come pos­so scuotere il mio maestro per svegliar­lo quando è lui che deve svegliare me?”. 

Osho si stirò, togliendosi i tappi dalle orecchie. 

Dormiva con dei grossi tappi, perché a mezzanotte le guardie facevano un controllo di sicurezza usando il walkie-talkie. Il suono gracchiante del Motorola allertava i suoi amati pavoni – erano più di quaranta – i quali rispondevano con un selvaggio e rumoroso frastuono che regolarmente svegliava tutta la casa. 

Li posò sul lenzuolo, perché l’addetto alle pulizie li prendesse più tardi, e si sedette sul letto per ricevere la sua tazza di tè. Noi aspettammo mentre lui sorseggiava lentamente. Nel frattempo, aprimmo le tende e mettemmo in bagno un asciugamano e una tunica puliti, calzini giapponesi tabi e cappello, che Vivek aveva scelto per quel giorno, tutti coordinati. Le tende della camera da letto coprivano la vetrata del soggiorno, che aveva una finestra panoramica sul giardino, e dovevano essere aperte per prime, usando i pulsanti montati su un pannello. Poi, mentre andavamo in salotto, Osho si alzò e andò in bagno a lavarsi – una delle sue occupazioni preferite – e noi ce ne andammo. 

 

La donna canadese che si prendeva cura dei suoi pasti, gli avrebbe preparato il pranzo. Il cibo era sempre accuratamente calibrato dal suo me­dico per adattarsi ai suoi bisogni diabetici e, almeno in quel periodo, era più o meno sempre identico. Consisteva di un grosso tortino di verdure fritto in padella, molto friabile. Poi riso decorato da due rametti di prezzemolo, un paio di salse e verdure saltate. Il pranzo era alle 12 circa, servito su un thali speciale, un vassoio di acciaio indiano con piccole ciotole, e in una precisa sequenza. 

Osho mangiava da solo al tavolo da pranzo vicino alla finestra – c’era solo una sedia – mentre noi stavamo da un lato pronte a servirlo. Usava un semplice cucchiaio e non beveva mentre mangiava. A un certo punto, mentre era seduto al tavolo, mi guardò e disse: “Oh, è alta come Chetana!”, riferendosi alla sua bella e slanciata addetta alla lavanderia. 

Mi aveva già vista prima, naturalmente, in quanto sua radiologa, quindi sapeva quanto ero alta. Presumo che questo fosse il suo modo di mettermi a mio agio. 

 

Dopo pranzo, prese le sue pillole, che Vivek teneva in una scatola apposita con tanti piccoli scompartimenti. Cinque compresse multicolori che dovevo versare nella mia mano e poi passare a lui, con un bicchiere d’acqua. 

Osho era molto presente durante il pasto. A parte quell’accenno a me e Chetana, non ci fu alcuna conversazione. L’unica volta in cui parlò, nel mio giorno di prova, fu quando gli porsi le vivande nell’ordine giusto e lui disse a Vivek, con un lampo di umorismo negli occhi: “Ora ha dimostrato che può farcela”. 

Una volta finito di mangiare, cosa che impiegò poco tempo, andò in bagno e noi raccogliemmo i piatti. Poi fece un sonnellino durante il quale gli preparai il tè prima della passeggiata in auto. Il tè del pomeriggio, preparato da Vivek o da chiunque fosse andato con lui nel suo viaggio quotidiano attraverso la Comune, era alle 13:15 circa, proprio prima della gita. 

Beveva un tè cinese, lapsang souchong, nella sua speciale versione preparata con acqua Perrier! Gettammo solo alcune foglie di quel tè dal profumo fumoso nell’acqua che si scaldava e non appena arrivò a ebollizione, la togliemmo e scolammo il tè. Questo infuso leggerissimo era servito nello stesso genere di tazza di porcellana del mattino, con il suo piccolo coperchio.

Dopo il tè, Osho andò alla sua auto e io mi unii agli altri ai piedi della collina, ancora dentro il cancello, per salutarlo mentre passava.

Alle sei in punto ricevette il suo snack serale, che variava spesso e nel mio giorno di prova consisteva in un alto bicchiere pieno di frutta e un cucchiaio dal lungo manico. E basta.

Dopo lo spuntino andò in bagno e chiudemmo le tende. E quella fu la fine della sua giornata. 

Lavorai ancora un’ora, pulendo la lavanderia, e poi fu la fine anche della mia giornata.

 

Essere stata scelta da Osho in questi piccoli modi e sentire di meritare il dono della sua presenza guarirono una vecchia e profonda ferita di indegnità che avevo avuto per tutta la vita. Qualcosa che avevo probabilmente sentito sin dal momento in cui mia madre mi aveva abbandonato, all’età di tre mesi.

Ho lavorato nelle Comuni di Osho per altri 20 anni dopo di allora e la mia gratitudine e il mio amore per lui non hanno mai vacillato.

 

racconti tratti da:

Savita, Encounters with an Inexplicable Man, Paperback

 

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Indradhanu

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