Una decisione improvvisa

Una decisione improvvisa

Il racconto di Chitbodhi sul suo arrivo a Pune nel 1978...

Un articolo pubblicato su Osho Times n. 319 cartaceo e digitale

 

Entrata all'Osho Resort del 1978
ENTRATA ALLA COMUNE DI PUNE DEL 1978


India, marzo e aprile 1978

Come al solito, appena sceso dal treno, mi trovai circondato da una folla crescente di uomini con biglietti da visita in mano che volevano che li seguissi fino al “miglior hotel della città al prezzo più basso”.
La piattaforma del binario non era molto ampia e tutti spingevano. Non riuscivo nemmeno a camminare e un paio di volte dovetti urlare: “Smettetela! Non spingete! Prima fatemi uscire da qui, poi possiamo parlare”. Ma nessuno ascoltava. Le spinte continuarono all’infinito e mi stavo davvero arrabbiando. Ogni pochi metri dovevo fermarmi e farmi spazio per poter camminare. Tutta quella gente mi stava davvero dando sui nervi!

Finalmente arrivai nella sala principale della stazione. 
Ero ancora in mezzo alla folla a difendermi dai biglietti da visita che mi spingevano in faccia, dalle mani che mi afferravano il braccio e cercavano di trascinarmi fino ai loro risciò, dagli autisti che cercavano di afferrarmi le valigie, costringendomi a seguirli.
Un grido animalesco esplose da me: “Fermi tutti. Basta!”.
Doveva essere stato un grido così disperato che stavolta mi udirono! E alcuni di loro mi lasciarono spazio.

Uno di loro mi parve a posto e visto che parlava inglese, improvvisamente mi venne in mente che prima di cercare un hotel, avrei già potuto chiedergli informazioni su dove fosse la stazione degli autobus per Goa e sugli orari.
L’uomo mi indicò l’estremità del corridoio e disse: “La stazione degli autobus è lì fuori, a soli cinque minuti a piedi da qui. Ci sono molti autobus ogni giorno, ma bisogna prenotare e comprare il biglietto un giorno prima”.

Poi le spinte ricominciarono. Il mio grido primordiale aveva tenuto tutti lontani da me solo per pochi minuti. Persino il “mio” tipo fu spinto via e gli urlai: “È la stessa stazione degli autobus per Pune?”.
“Sì, sì, la stessa stazione”.
Poi disse qualcosa che forse non avrebbe dovuto dire, un attimo molto breve, che mi cambiò la vita: “L’ultimo autobus per Pune parte tra 20 minuti”.
Non so cosa mi spinse a fare ciò che feci dopo. Forse fu solo il mio modo di scappare da quella folla che spingeva? Non ci pensai nemmeno in quel momento. Semplicemente cambiai direzione e scappai dalla stazione ferroviaria. E vidi la stazione degli autobus.
“Per Pune?”.

Un controllore mi indicò un autobus che stava chiudendo le porte. Corsi. L’autista aprì la porta.
“Posso pagare qui? Non ho avuto tempo di prendere il biglietto”.
“Sì, sì, sali”.
Strappò un biglietto, pagai ed ero in viaggio verso Pune. E avevo un posto a sedere. E mi sentivo bene. E la folla di agenti che spingevano se n’era andata: ero riuscito a scappare. Dunque sarei andato a Pune prima di Goa. L’autobus era mezzo vuoto - sorpresa - e parlando con altri passeggeri scoprii che saremmo arrivati verso mezzanotte o l’una.
Un orario un po’ stupido, pensai, per arrivare in una nuova città di cui non sapevo nulla. Nemmeno un hotel dove dormire quella prima notte. [...] L’unica cosa di cui ero abbastanza sicuro era che a Pune ci sarebbero stati altri stranieri da qualche parte.

Quando arrivammo, all’una di notte, dovetti fidarmi del fatto che il primo conducente di risciò che trovai mi avrebbe portato in un hotel economico. Fu un lungo viaggio in risciò. Avevamo lasciato tutte le strade principali da un po’ e finalmente si fermò in una stradina molto stretta davanti a una casa. Nessun cartello all’esterno che indicasse che si trattasse di un hotel. Per un attimo ebbi paura: forse voleva derubarmi?
“Baba, costa poco, è davvero il prezzo migliore”.

Dentro c’era effettivamente una specie di piccolo bancone stile “reception”, con un tizio che ci dormiva dietro, sul pavimento. Ero arrivato nel luogo peggiore di tutto il mio viaggio. Sì, a buon mercato. Una stanza senza finestre, con una sola lampadina ac­cesa e così sporca!
“Meglio di niente”, pensai.
Avevo bisogno di dormire un po’ a quel punto. Poche ore e poi sarebbe arrivato un altro giorno. Avrei potuto cercare un posto migliore e trovare quell’ashram di cui avevo letto sulla rivista Stern. Spensi le luci. Chiusi gli occhi. […]
Alle 5 del mattino mi alzai, pagai e partii in fretta, trovando un risciò appena fuori, con l’autista che dormiva sul sedile posteriore.

“Conosci quel posto con gli arancioni? Una specie di ashram?” gli chiesi scuotendogli la spalla, cercando di svegliarlo. Si svegliò subito e un grande sorriso gli apparse sul viso. Annuì velocemente. Sembrava proprio che il posto fosse ben noto: “Sì, sì, lo conoscono tutti, ma è troppo presto, Baba, apre alle 7 o alle 8; adesso è chiuso”. Certo, erano solo le 5. Andammo in giro finché lungo la strada non vidi una specie di piccolo ristorante già aperto.

Passai le due ore successive a bere molti caffè, cercando di rimanere sveglio.
Alle 7 del mattino arrivai a un enorme e moderno cancello d’ingresso. Era chiuso. Guardandomi intorno, notai un tizio vestito di rosso con una collana, seduto su un muretto di fronte al cancello. Posai il mio zaino accanto a lui e chiesi: “È questo 
l’ashram?”.
Mi studiò con curiosità. Era straniero come me.
“Sì, ma è troppo presto. Apre alle 9”, rispose in tedesco.
Si chiamava Garjan. Era di Monaco.

Sì, c’era molta gente. Sì, hanno una lista all’interno con gli hotel economici. Sì, avrei dovuto prima registrarmi all’ingresso. Mi avrebbero dato maggiori informazioni.
Questo ashram era tutto incentrato su questo Rajneesh. Sentii la sua voce provenire dall’altra parte del muro mentre parlavamo. Un pessimo inglese-indiano, non capivo una parola. Le porte si aprirono poco dopo le nove e rimasi stupito da quanti stranieri come me stessero uscendo. Centinaia e centinaia, tutti vestiti di rosso e arancione con una collana che pendeva sul petto.
Wow, che posto è questo?

Ero curioso. Dopotutto, questo viaggio era tutto incentrato sulla scoperta di cose nuove. Sull’essere aperto a imparare e a cogliere ogni opportunità che la vita mi offrisse. Registrandomi con il passaporto, ricevetti un riassunto delle poche regole.
Se volevo partecipare a gruppi di terapia, dovevo prima andare all’ufficio centrale e parlare con una donna di nome Arup.
Se avevo bisogno di un posto economico dove alloggiare, avevano una lista da consultare. Scelsi il più economico e un’ora dopo avevo il mio materasso in un dormitorio, al Wakefield’s, un’antica casa coloniale indiana che aveva certo visto tempi migliori, forse 50 anni prima.

I miei primi due giorni a Pune: studiare la situazione. Stare tutto il giorno nell’ashram, osservare la gente, ascoltare le conversazioni, cercare di decidere se mi piacesse o no, se fermarmi qualche giorno o preparare lo zaino e proseguire il mio viaggio verso Goa.
Così tanti stranieri, centinaia, migliaia, da tutti i paesi... Questo mi incuriosiva davvero. A quel tempo, probabilmente, nel raggio dei due chilometri intorno all’ashram viveva qualche migliaio di stranieri.

Tutti erano di buon umore. Tutti sorridevano. E io mi sentivo bene. Era così diverso dal mondo da cui provenivo, Berlino, e dai miei studi all’università. Nessuno mi diceva cosa fare. Con chiunque parlassi, nessuno mi diceva di provare o partecipare. Nessuno cercava di convincermi di nulla. Parlavano di sé e delle loro esperienze senza mai darmi consigli su cosa fare.
Parlavano di meditazione. “Cos’è?”. Non avevo mai fatto niente del 
genere.
Parlavano di illuminazione e di come raggiungerla. “Cos’è?”. Non avevo mai nemmeno sentito quella parola prima. 

Il 2 aprile decisi che avrei dovuto provare qualcosa, altrimenti come avrei potuto sapere di cosa si trattasse? 
Non avevo ancora visto questo tipo indiano, non ero ancora andato ai discorsi che teneva ogni mattina. La cosa migliore era fare uno di quei gruppi di cui parlavano tutti. Dato che non avevo mai fatto un gruppo di terapia prima, mi fu chiaro che avrei voluto fare il gruppo menzionato sulla rivista Stern. Ma per farlo, avrei prima dovuto parlare con questa signora olandese nell’ufficio centrale. 

Da quei due giorni di conversazioni e di ascolto delle persone, avevo capito cosa avrebbe dovuto succedere con lei: “Entri e chiedi cosa va bene per te. Poi lei seleziona i gruppi a cui puoi partecipare”.
Non volevo questo, non volevo sprecare soldi per dei gruppi inutili. Volevo un gruppo solo, il migliore! Se l’avessi fatto, di sicuro avrei compreso questo posto, questo indiano, e avrei capito se mi piacesse o no, e poi sarei andato a Goa.

Mi sedetti di fronte ad Arup. La conversazione fu diversa da quello che tutti mi avevano detto.
“Cosa vuoi fare?”.
Ero sorpreso. Era stata lei a chiedere a me e io ero pronto a convincerla in qualche modo che volevo partecipare a questo Encounter.
“L’Encounter!”.
Mi guardò sorpresa, poi mi studiò con lo sguardo.
“È il gruppo più difficile. Lo sai? Non sono in molti a voler partecipare a quel gruppo”.
“Sì”. Un attimo di silenzio. “Hai mai fatto gruppi di terapia prima?”.
“Ho studiato psicologia a Berlino. Sì, li ho fatti”.
Era una bugia. Non avevo mai fatto terapia prima. 

“Il più difficile”: cosa significava? Non avevo la minima idea di cosa fossero i gruppi, ma il più difficile per me andava benissimo, qualunque cosa significasse.
Si sporse verso un’altra donna, probabilmente la sua segretaria, e disse: “Okay, può partecipare all’Encounter, comincia il 21 aprile”.
Voltandosi di nuovo verso di me, disse: “Okay, puoi farlo. Ma sarebbe meglio se facessi due gruppi più leggeri prima. Va bene?”.
“Sì, purché io possa partecipare all’Encounter”.
“Okay, iscriviti oggi. Inizia con il gruppo di Centering dal 4 al 10 aprile. Poi fai il gruppo ‘Chi sono io?’ per tre giorni e poi sarai pronto per l’Encounter”.
E dopo uscii. Era il 2 aprile, ero a Pune da tre giorni e tra altri 26 giorni avrei saputo cosa avrei fatto dopo. Per me andava bene. Il posto non era male. La gente sorrideva. Niente droghe, buon cibo, il dormitorio costava solo 1,50 dollari a notte. E avrei imparato qualcosa di psicologia. Dopotutto, l’avevo studiata a Berlino...

Il 4 aprile, un giorno perfetto per iniziare il Centering: il mio compleanno. A pranzo, seduto con alcune persone che avevo già incontrato, mi chiesero subito: “Allora, che gruppi fai? Cosa ti ha detto di fare Arup?”.
“L’Encounter. Non me l’ha detto lei. L’ho chiesto io”.
Mi guardarono tutti.
“Cosa? Ma sei appena arrivato. Nessuno fa quel gruppo”.
“Questo non lo so, ma io lo farò”.
I gruppi da fare e quelli suggeriti da Arup erano gli argomenti preferiti di cui parlare. L’altro argomento di conversazione era sempre: a che punto sei sulla strada dell’illuminazione? Chi è vicino all’illuminazione? Quando ti succederà?

Probabilmente all’epoca si tenevano circa 40 diversi tipi di gruppi di terapia a cui le persone potevano partecipare, pagando, e da cui imparare. Avevo già completato due anni di studi in psicologia nell’istituto più progressista d’Europa, ma fino ad allora non avevo mai sentito parlare di gruppi.
L’Encounter pareva il più difficile di tutti. Per mia fortuna, era l’unico menzionato su quella rivista Stern.

Quando la gente scopriva che avrei partecipato a quel gruppo, reagiva sempre raccontandomi delle storie orribili. Che era un gruppo senza limiti: braccia e gambe rotte, denti rotti, litigi a sangue. Tutto era possibile in quel gruppo, cose che non sarebbero state permesse in Europa o altrove. Ascoltavo tutte quelle storie, ma mi sentivo sempre bene. Non mi spaventavano affatto. Fare la cosa più difficile forse si sarebbe rivelato difficile, ma sarebbe stato il modo migliore per capire subito perché tutti stavano intorno a questo indiano.
Il gruppo di Centering. A volte si meditava, a volte sedevo di fronte a un’altra persona, raccontando la mia storia e ascoltando la sua. Musica dolce, circa 40 partecipanti. Dovevamo fare la Meditazione Dinamica prima del gruppo ogni mattina alle 6 e poi ascoltare questo indiano fino alle 9. Il gruppo iniziava alle 10 e durava fino alle 10 di sera o più tardi.

La Meditazione Dinamica non mi piaceva, tutto quell’urlare e agitarsi: stupido.
Saltavo il discorso del mattino e quindi non ascoltai mai questo tipo, Rajneesh. Avevo bisogno di tempo per me, quindi lasciavo l’ashram e facevo colazione al Café Delite: uova strapazzate e croissant.
Stando in quel gruppo per 12 ore al giorno, a volte dovevamo sdraiarci e ascoltare citazioni dai suoi discorsi. Facevo fatica a capire qualcosa. Il mio inglese era molto elementare, quello che avevo imparato a scuola. E lui aveva questo forte accento indiano-inglese a cui mi ci volle un po’ per abituarmi.

L’8 aprile, di nuovo, ci sdraiammo tutti sul pavimento piastrellato, per rilassarci e ascoltare una citazione da un discorso mattutino. Mentre lui parlava io per lo più fantasticavo, perso tra i miei pensieri. Improvvisamente sentii la parola “psicologia”. Questo tizio stava parlando di psicologia.
Grazie ai miei studi, capii le due frasi successive:
“Se sei infelice dentro, come puoi aiutare gli altri? Se non sei felice, come puoi aiutare altre persone?”.

Migliaia di lampadine si accesero nella mia testa. Lampi di comprensione mi attraversarono il cervello. Stavo studiando la cosa sbagliata! A cosa serve diventare professore di psicologia per poi essere triste e infelice? Non potrei aiutare nessuno in quel modo. L’unica cosa che riuscirei a fare è riversare su di loro la mia infelicità.
Ricordai le due ore con il professor Holzkamp. Era infelice. Non riusciva nemmeno a guardarmi negli occhi. 
E quando gli chiesi perché non mi guardasse negli occhi, crollò a pezzi davanti a me. Diventò così nervoso, cercando di mascherare il suo essere interiore con parole più intellettuali. Parole, parole, parole: erano solo questo. In profondità era un uomo infelice. Non poteva aiutare nessuno di noi. Non riusciva nemmeno a spiegare uno dei suoi pensieri in modo che potessimo capirlo tutti.

Non volevo essere così!
Prima di tutto, dovevo “rendermi felice”. Prima di tutto, dovevo trovare qualcosa che mi rendesse felice. Prima di tutto, dovevo imparare a conoscere la mia infelicità. 
Solo se sono completo interiormente e felice, posso aiutare le persone, posso guardarle dritto negli occhi mentre parlo.
Conclusione: i miei studi erano stati una perdita di tempo!

Questa serie di pensieri e questo lampo di comprensione accaddero subito dopo aver sentito quelle parole. Dopo la sessione di gruppo, la naturale conseguenza di quei lampi di comprensione fu entrare direttamente all’ufficio centrale.
Arup si stava alzando dalla sua grande sedia da ufficio, pronta per andare a pranzo.
Mi riconobbe. Ne fui sorpreso...
“Tutto bene?”.
Eravamo soli nella stanza.
“Sì. Voglio prendere il sannyas. 
Stasera”.

Quella era una frase che ormai conoscevo. “Prendere il sannyas” significava entrare a far parte di tutto. Sedersi di fronte a lui durante la sessione serale, nella sua casa. Ti parla personalmente. E alla fine ti dà un nuovo nome. Ti dà una collana di perle di palissandro con un piccolo medaglione, con la sua foto all’interno. Ogni giorno così tante persone volevano prendere il sannyas che la maggior parte di loro doveva aspettare fino a due settimane per poter fissare una sessione serale. Fino a quel momento non ero nemmeno stato a uno dei suoi discorsi... Lo conoscevo solo dalle foto che erano sparse ovunque nell’ashram e dalla grande foto nella sala dove facevamo il gruppo.

Arup fu sorpresa. Si risedette sulla sua grande sedia e prese una cartella. I suoi occhi scrutatori mi guardarono per qualche secondo; silenzio tra noi. Controllando la cartella: “Siamo pieni. Stasera non è possibile! Mi dispiace. Ma il tuo gruppo ha l’ultimo Darshan con lui tra due giorni, la sera del 10”. (L’ultimo giorno di un gruppo, tutti i partecipanti erano invitati ad andare da lui la sera. Non lo sapevo fino a quel momento.) 
“In realtà è tutto prenotato per prendere il sannyas, ma ti farò entrare. Prenderai il sannyas con il tuo gruppo. Mi sembra una bella idea”.
“Sei contento adesso?”. Mi colpì. Le stesse parole che il direttore dell’Oberhausen College mi aveva chiesto sei anni prima. “Sì, molto contento”. Mentre uscivo, sapevo che era successo qualcosa di importante per me. Mi sentivo leggero. Felice. A mio agio. Qualcosa era uscito dal mio sistema. Il passato era passato e molto lontano da me. Berlino, i miei studi, Irmgard, tutto era scomparso. La mia decisione era stata quella giusta!
Tutto andava così bene a quel punto.
Nient’altro di rilevante da dire su quel gruppo di sei giorni.
Solo quei tre minuti erano stati importanti per me.


 

Se apprezzi il lavoro che facciamo, sostienilo acquistandolo: l'articolo è tratto da Osho Times n. 319 che puoi scaricare in versione digitale per soli 2,90 euro - al costo di un cappuccino hai 60 pagine di Osho energy - con un click ce l'hai per sempre sul tuo computer, smart phone, tablet. CLICCA QUI

 

Dal libro One Life: A True Account, Chitbodhi (Karl Ludwig Malczok), e-book su Kindle. Articolo da oshonews.com