Tre parole
Tre parole
Per chi pratica l’arte della meditazione
Un raro brano di Osho apparso su Osho Times n. 320

Per la sadhana, cioè la pratica della meditazione, sarà utile comprendere queste tre parole: testimone, consapevolezza e accettazione totale.
Il testimone è il primo passo. Essere testimone significa attraversare la vita come un testimone. Significa vivere come uno spettatore, un osservatore, un testimone della propria vita.
Se tu mi maltratti, non che io dovrei sentire o fare esperienza del fatto che tu mi abbia maltrattato, o che io sia stato maltrattato. Tu hai maltrattato colui che è “Io”. Se mi colpisci con una pietra, non dovrei sentire che hai lanciato la pietra e che mi sono fatto male, ma che tu hai lanciato la pietra e che “questa persona” si è fatta male. Dovrei sempre essere al terzo angolo di un triangolo, dovrei sempre saltare al terzo angolo. Se la mia casa prende fuoco, non dovrei sentire che la mia casa è in fiamme, dovrei sentire che la “sua” casa sta bruciando e che io la sto guardando.
L’inizio della sadhana, per il testimone, è separare la vita in tre parti. Normalmente ci sono due parti. Io sono qui e tu sei lì. Tu sei quello che maltratta, io sono colui che riceve il maltrattamento. Ci sono solo due parti, la terza non c’è. Nell’essere testimoni, aggiungiamo una terza persona. Io dovrei sempre essere la terza persona e non la seconda, in ogni circostanza.
Man mano che questo terzo angolo diventa più chiaro, gli altri due appaiono buffi, ridicoli: la persona che maltratta e la persona che è stata maltrattata.
Ram andò a New York. La gente gli tirava le pietre, alcuni lo maltrattarono. Tornato in camera, lo raccontò ai suoi amici: “Ram si è trovato in una situazione difficile oggi; la gente ha iniziato a maltrattarlo e alcuni gli hanno tirato le pietre. È stato molto divertente”.
Gli amici dissero: “Cosa stai dicendo? Tu sei stato maltrattato”.
Ram rispose: “Come avrebbero potuto maltrattare me? Se io stesso non conosco il mio nome, come possono conoscerlo loro? Hanno maltrattato Ram”.
Gli amici gli chiesero se non fosse lui stesso Ram. Ram rispose: “Se fossi Ram, sarei tornato molto afflitto e infelice. Ero lì a guardare alcune persone che maltrattavano il povero Ram che subiva i maltrattamenti. Per questo dicevo che oggi Ram si è trovato in una situazione difficile”.
Ora questa terza persona si manifesta. Essere un testimone è il primo passo per un sadhaka, per un praticante. È facile. “Testimone” è la parola più semplice delle tre.
Cerca sempre di osservare. Quando mangi, osserva che il cibo viene mangiato e che la persona che finora hai conosciuto come “Io” sta mangiando. Aspetta in un angolo del tavolo e osserva. Non stai mangiando, è il cibo che viene mangiato. Qualcuno sta mangiando e tu lo stai osservando.
Man mano che questo si manifesta, il tuo coinvolgimento nella vita diminuisce sempre di più, perché un testimone non può essere tormentato, solo chi agisce è tormentato. Quando pensi: “Sto mangiando”, puoi essere infelice. Quando dici: “Sto facendo l’amore”, puoi essere turbato. Ma quando dici: “Una persona sta facendo l’amore e un’altra sta mangiando”, tu sei la terza persona che ne è testimone, quindi non puoi essere turbato. Non sei ansioso o preoccupato.
Se ti ricordi di essere testimone cinque-dieci volte al giorno, smetterai di sognare di notte, perché chi sogna e agisce tutto il giorno, agisce anche di notte.
Come può l’abitudine di agire per tutto il giorno essere abbandonata di colpo durante la notte?
Se una persona gestisce un negozio durante il giorno, fa lo stesso anche di notte. Se litiga in tribunale tutto il giorno, si presenta in tribunale anche di notte.
Chi rimane un “agente” durante il giorno, diventa un agente anche di notte. Al contrario, chi è un testimone durante il giorno diventa un testimone anche di notte.
Ora, questa è una cosa molto interessante: se diventi un testimone durante il giorno, il tuo negozio non smetterà di funzionare. Ma il negozio dentro di te sarà chiuso, perché un negozio in sogno non è un vero negozio, è solo un’idea. Quando diventi un testimone, scompare. Il negozio fuori continuerà a funzionare, ma il negozio dei sogni scomparirà. Non c’è la possibilità di preoccupazioni e ansie quando si diventa testimoni.
Oggi l’America è il paese più preoccupato, perché l’idea che l’io sia l’autore di tutto è più forte lì. Qualunque cosa accada, c’è sempre l’”io” dietro.
Non c’erano troppe preoccupazioni e ansie in passato, nel mondo antico. La ragione non è che le persone viaggiassero sui carri trainati da buoi e non sugli aerei. Era tutto completamente diverso.
Perché c’erano meno preoccupazioni in passato? In passato, insieme all’”Io”, c’era anche il terzo angolo del testimone e si cercava sempre di sviluppare questa idea.
Il testimone vedeva le cose accadere e le osservava in molti modi. A volte diceva: “È dio l’autore”. Questo era un suo modo per dire: “Non sono io l’autore”. A volte, diceva: “È il destino”. A volte diceva che stava accadendo “ciò che è scritto”. Anche questo era un suo modo di dire: “Non sono io l’autore”.
Noi siamo impazziti. Abbiamo frainteso i loro modi a tal punto che la ragione per cui dicevano queste cose è stata completamente dimenticata e abbiamo colto solo ciò che dicevano: le parole.
Anche ora crediamo nel destino, ma andiamo dal chiromante perché ci legga la mano, o per scoprire modi e mezzi per compiere qualche atto sacrificale, ecc., in modo che il destino possa cambiare.
Tutte quelle parole erano usate semplicemente per indicare la vera nozione sottostante, il terzo aspetto dell’essere un testimone, del non essere un agente. Ecco perché Krishna può dire ad Arjun: “Vai in guerra, perché ti preoccupi e pensi di essere tu a dover combattere? Sono io a farlo”. E ancora: “Uccidili, perché ti preoccupi e pensi di essere tu a ucciderli? Perché coloro che pensi di uccidere sono già stati uccisi”.
Arjun non capiva questa affermazione di Krishna, perché si considerava l’autore dell’azione. Diceva: “Come posso uccidere i miei cari? Sono miei, no, non posso ucciderli”. Le sue preoccupazioni sono quelle di chi agisce.
Se desideri comprendere l’essenza della Gita, è contenuta in due parole. Arjun vive nell’illusione di essere colui che agisce e Krishna continua a persuaderlo continuamente a essere un testimone. Non c’è nulla da capire nella Gita. Krishna continua a ripetere: “Sei semplicemente un osservatore, un testimone, e non un agente. Tutto questo è già stato fatto in precedenza”.
Questo è solo un modo per dirgli: “Non sei tu colui che agisce. Non pensarci nemmeno. Questa illusione da sola ti sconfiggerà e ti getterà nell’inganno. Questa illusione ti tiene preoccupato, ti tiene agganciato”.
Il testimone è il primo passo del sadhaka. Non è il più facile, ma rispetto ai passi successivi è certamente facile. Ma se ti eserciti un po’, non è poi così difficile. Mentre nuoti, osserva come nuotano gli altri. Mentre cammini per strada, osserva come camminano gli altri. Non è difficile. A volte avrai un barlume. E non appena avrai l’esperienza del barlume del terzo angolo, vedrai, all’improvviso, che il mondo intero è cambiato. Tutto sarà cambiato, le cose ora avranno un colore diverso.
Il mondo è come lo guardiamo. Quando la visione cambia, il mondo cambia.
Il secondo passo della sadhana è la consapevolezza. Va più in profondità dell’atto di essere un testimone. Nell’atto di essere un testimone, prendiamo due persone, tu e io, e in quell’atto ci separiamo da noi stessi come una terza persona. Nell’essere un testimone dividiamo il mondo in tre parti. Creiamo un triangolo.
Nella consapevolezza, non esiste questa divisione. Viviamo nella consapevolezza. Mentre camminiamo, siamo consapevoli di camminare, lo facciamo consapevolmente.
Quello che accade è che tutte le nostre azioni sono compiute per abitudine. Quando vai verso casa, lo fai automaticamente come una macchina. Quando vedi tua moglie sorridi ed è un sorriso standard, sorridi per pura abitudine. È solo un meccanismo di difesa, eseguito inconsciamente.
Quindi, se osservi attentamente, noterai che non ci incontriamo affatto, continuiamo a ripetere le stesse vecchie cose come se fosse un video registrato.
Ci incontriamo solo quando ci relazioniamo l’uno con l’altro in piena consapevolezza. In questo stato di piena consapevolezza si è sempre totalmente consapevoli di ogni azione compiuta. Si è sempre consapevoli di ciò che si sta facendo. Può trattarsi di mangiare, parlare, qualsiasi cosa.
Nell’essere testimone, il terzo punto si manifesta e colui che diventa un testimone troverà la consapevolezza facile, perché un testimone deve essere consapevole per essere un testimone. Non si rimane indifferenti. Qualunque cosa accada, accade alla luce della consapevolezza che arde dentro di noi. Se alzo un piede, lo faccio consapevolmente. Ogni parola è pronunciata in uno stato di piena consapevolezza. Se dico di sì, intendo dire di sì. L’ho detto consapevolmente. E se dico di no, intendo dire di no. L’ho certamente detto con consapevolezza.
In questo stato di consapevolezza, tutto ciò che è privo di significato nella vita si ferma, perché nessuno può fare qualcosa di inutile e privo di significato mentre ne è consapevole. La rete di cose prive di significato nella vita, che tessiamo come un ragno e in cui spesso rimaniamo intrappolati, si spezza all’istante.
Se dici una bugia e per non contraddirla continui a dirne altre per tutta la vita, dimentichi la bugia originale e la rete continua ad allargarsi e passo dopo passo ti ci addentri senza pensarci.
Così camminiamo su strade che non desideravamo percorrere. Creiamo connessioni che non desideravamo. Compiamo azioni che non avremmo mai desiderato. Così la vita intera diventa confusa e frantumata.
Consapevolezza significa essere totalmente consapevole di ciò che stai facendo nel momento in cui lo fai. Dopo averne fatto esperienza, realizzi quella pace che non avevi mai avuto prima.
La terza parola è tathata, l’accettazione totale; è molto difficile. Se si riesce a padroneggiare la consapevolezza, si può padroneggiare l’accettazione totale. Tathata significa la fattualità di ciò che è. Non ci sono lamentele e anzi siamo appagati.
Nell’essere testimoni, siamo osservatori di qualsiasi cosa accada. Nella consapevolezza siamo pienamente risvegliati. Nell’accettazione totale, siamo appagati di qualunque cosa ci sia, che si tratti di infelicità, morte, un incontro con una persona cara o un guadagno. Non c’è rifiuto, c’è tranquillità. Tathata è la fiducia suprema in dio. Non nel senso di chi dice: “Credo in dio”.
Chi dice: “Ho fiducia in dio” non è un credente. Chi ha fiducia non si lamenta. Dice: “Qualunque cosa sia, va bene”. Ogni respiro è pieno di disponibilità. L’accettazione totale è il battito del suo cuore.
Voltaire ha scritto da qualche parte: “Oh dio, potremmo anche accettarti un giorno, ma non saremo in grado di accettare il tuo mondo”. Ci sono altri che accettano il mondo, ma non sono in grado di accettare dio.
Tutti accettiamo la felicità, ma chi accetta l’infelicità?
E finché non è accettata, l’infelicità rimane.
Questa è forse l’importanza dell’infelicità nell’evoluzione della vita spirituale.
Qualunque forma la vita prenda deve essere accettata, questa totale accettazione porta piogge di beatitudine. È facile accettare i fiori, ma la vera questione è accettare le spine. Tutti accettano la vita, la accolgono, la questione è accettare la morte.
Tathata significa accettazione totale. Una tale accettazione può aver luogo quando si è totalmente consapevoli. È possibile solo dopo essere stati testimoni.
Quando una tale accettazione si è fissata nel cuore, nella tua vita inizia la danza della beatitudine infinita. La musica di quel flauto vuoto inizia a suonare. Quella danza che non ha ritmo, entra nella tua vita. Quel profumo che non ha fiori, inizia a entrare nella tua vita. Ma l’accettazione totale è una cosa molto difficile da raggiungere.
Un mendicante stava passando sotto un albero. Un uomo lo colpì con un bastone, ma era nervoso e il bastone cadde, così l’uomo scappò via. Il mendicante prese il bastone, andò in un negozio lì vicino e disse al negoziante di tenere quel bastone con sé e di restituirlo a quel pover’uomo se fosse tornato a cercarlo.
Il negoziante disse: “Che uomo gentile sei. Ti ha colpito con il bastone”. Il mendicante rispose: “Una volta, mentre passavo sotto un albero, un ramo dell’albero mi cadde addosso e lo accettai. Quest’uomo dev’essere migliore almeno dell’albero”.
Oppure, stai navigando in barca su un fiume, una barca vuota arriva dalla direzione opposta e urta la tua: non dici nulla. Accetti il fatto e prosegui la navigazione. Ma se un uomo fosse seduto su quella barca, ci sarebbe una lite. Sei pronto a perdonare la barca, ma non l’uomo. Hai perdonato la barca perché l’hai accettata, perché non c’era altro modo che accettarla. Non sai perdonare l’uomo perché ti è difficile accettarlo.
Quando entrambe le situazioni – che una barca vuota o una barca con un uomo urti la tua – sono la stessa cosa per te, è accettazione totale. Se c’è anche solo una minima differenza nel tuo atteggiamento, perdi l’accettazione totale. Se una persona ti lancia dei fiori e un’altra ti lancia le pietre e accetti entrambe senza fare distinzione tra le due, c’è accettazione totale. E non hai desiderio di avere qualcosa di diverso da ciò che sta accadendo in questo mondo. Sei appagato di questo intero universo, immenso e infinito, dove le onde agitano il mare, dove si alzano tempeste di vento, dove i fiori crescono sugli alberi, dove le stelle si muovono nel cielo, dove qualcuno ti insulta e qualcuno ti canta canzoni. Accetti il tutto così com’è.
Tathata è la terza parola per un sadhaka. Per raggiungere lo stato di piena consapevolezza, bisogna iniziare dall’essere un testimone e finire con l’accettazione totale.
All’inizio separa te stesso come osservatore dall’essere un agente, poi unisci la consapevolezza all’azione e infine dona la tua accettazione al tutto.
La consapevolezza si rafforza e si approfondisce lentamente seguendo questi tre passi.
Il Buddha era chiamato anche Tathagata. Gli piaceva molto questo nome, quando passava per un villaggio e qualcuno diceva che Tathagata stava passando. Significa colui che ha raggiunto l’accettazione totale. Così arriva, così se ne va.
I cigni volano sopra un lago, proiettano le loro ombre e scompaiono, ma né i cigni né il lago sanno nulla di questi riflessi. Non c’è alcun desiderio di fare altro che ciò che sta accadendo. Qualunque cosa sia accaduta, è accaduta, non si tiene alcun conto, non c’è speranza di successo o fallimento, non si coltiva alcuna frustrazione e non si considera alcuna vittoria.
Tathagata è un’individualità vuota, in un vuoto. O meglio, è un vuoto interiore vivente. È un vuoto circondato da ossa, carne e tessuti.
È un tathagata chi diventa questo vuoto. Raggiunge il quarto stato.
Essere un tathagata significa saltare dall’inconscio collettivo all’inconscio cosmico. Nella condizione di testimone, abbandoniamo il mondo esterno e l’individuo entra nell’inconscio. Nella consapevolezza, l’individuo va oltre l’inconscio ed entra nell’inconscio collettivo. Nell’inconscio collettivo l’individuo deve far pratica per essere un tathagata, poi entra nell’inconscio cosmico.
Non c’è sadhana dopo l’inconscio cosmico. Non c’è sadhana nel tathagata. In questo stadio, tutto nella vita procede da solo, non è necessario alcuno sforzo.
Lo sforzo di andare dentro non c’è più, ciò che un tempo era dentro è perduto. Tathagata è la conquista di sprofondare nell’abisso della vita.
La religione è la porta. Lo yoga è il processo di raggiungere quella porta. E il tathagata è il dio che presiede quel tempio.
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Testo di Osho tratto da: The Perennial Path: The Art of Living #8